lunedì 31 marzo 2025

Giorno di risacca di Maylis de Kerangal

 



Peccato. Non mi ha entusiasmato. La de Kerangal oltre ad essere la scrittrice col nome più musicale del mondo (per l’esattezza Maylis Suzanne Jacqueline Le Gal de Kerangal)  è anche una di quelle che seguo con più piacere, da qualche anno ormai. Per lo stile elegante, i soggetti originali, la voce narrativa calda, le storie dense di suggestione e la capacità di rendere la sofferenza e le paure del nostro tempo attraverso la storia dei corpi e degli spazi fisici. Anatomia e architettura per raccontare le angosce dei viventi, l’agire del passato sul presente, il tentativo di trovare un rifugio o un’armonia nella corrente delle cose e dei fatti. 


Tutto questo c’è anche in "Giorno di risacca". C’è un cadavere senza nome e una donna che vagabonda nel tempo e nello spazio per risolvere il suo mistero, ma c’è soprattutto una città e il suo mare (Le Havre). Una città che si porta dentro sedimentata la struttura fossile del suo passato di città portuale, di città di mare uscita distrutta dall’ultima grande guerra. E’ vero, come si legge in giro, che è la città la vera protagonista. Senonchè stavolta, apre troppi fronti, troppi scenari e finisce che il racconto perde la sua unità, il suo ritmo. Poi,  la magia della  si fa inquinare dall’attualità e induce al  sospetto di “voler stare sul pezzo” e “dalla parte giusta” sui “temi del momento” e per quanto mi riguarda non c’è cosa che capace di rovinarmi di più il piacere della lettura.


Da lettore patologico di letteratura, quando uno scrittore infila dentro ad un romanzo temi di attualità per lanciare messaggi o peggio per ammiccare (scambiando il lettore per un immaginario sodale, o per provocare una reazione a chi sta “dall’altra parte”) è come se qualcuno si mettesse a fare il ragù mentre faccio colazione. Anche perché di solito il precipitare della qualità dello stile è la prima conseguenza, come la puzza di soffritto.


Se una volta (quando tra scrittori e lettori dominavano i malati di ideologismi e tutto serviva a “far passare il messaggio”) era una cosa per lo più esteticamente brutta, ma aveva un suo perverso senso. Perché un progetto c’era, da qualunque parte si stesse schierati. E schierarsi era quasi un obbligo, un fluire naturale col corso della storia, dovunque ci si collocasse. Adesso è solo una forma antistorica, residuale di idiozia o di cattivo gusto, un approssimare grossolanamente, un rifiutare di scandagliare la complessità delle cose. Il romanzo ne ha beneficiato: ha riconquistato la forza della sua connaturata ambiguità, il potere di suscitare dubbi e domande e di negarsi ad ogni certezza e ad ogni verità, la capacità di assumere  sempre nuove forme di struttura e di espressione per riflettere la complessità della vita e della storia.


Ricadere nelle tentazioni della militanza oggi serve solo a dimostrare che chi di ideologismo era malato non è mai guarito. Oppure che ci si adagia in una corrente e ci si fa trascinare. 

E la corrente dominante è passata dagli ismi del novecento (fascismo, comunismo, nazionalismo, fideismo religioso) ai loro simulacri del dopo novecento (ecologismo, pacifismo, genderismo, iperliberismo, cialtronismo populista di “destra” e di “sinistra”, neoidentitarismi e neonazionalismi, ribellismo straccione, razzismi più o meno consapevole e mascherati). Sono frammenti di specchi rotti; sono metadone. Però gli effetti che si cercano in essi sono identici: la stessa febbriciattola agitatoria con punte convulsive che ci tenga precariamente uniti in una parte; gli stessi pruriti allergici che ci tenga divisi da chi sta dall'altra parte; la stessa spinta a propagare e propagandare una qualche "verità" che ci spinga in piazza.


In questo libro anche la de Kerangal cede alla tentazione dell'attualità: Ucraina con antimilitarismo e immigrazione (con tonalità pietista), intelligenza artificiale (con tonalità passatista e catastrofista: “non sono riusciti ancora a clonare i sentimenti”), narcotraffico e commercio globale. Il tutto con  la tonalità tanto di moda e tanto comoda da solidarietà vittimistica, di rassegnata indignazione.  Perché, in assenza di progetti, è proprio la rassegnata indignazione lo sbocco che gran parte del romanzare  finisce con l’assumere, quando sceglie di essere militante osemplicemente di rincorrere la nostra attualità. 


E lì, senza voler spoilerare,  finisce coll'atterrare anche "Giorno di risacca". In una tonalità di impotenza rassegnata. E' quel accade, se ci fate caso, anche nella gran parte delle quotidiani narrazioni e conversazioni che ci capita di ascoltare in tv, nei salotti, nei bar. E troppo difficile, quasi impossibile, tentare di capire come stanno davvero le cose, in mancanza una bussola concettuale. Lo è sempre stato, ma gli ideologismi e quindi anche i loro simulacri di oggi, come tutte le fedi consentono di aggirare il problema, di risparmiarsi la fatica. 


E' svanita, con la certezza di avere una  chiave, anche la speranza o la velleità di “cambiare le cose”. Il “progetto” è sparito insieme con la faccia del nemico (del padrone o dell’eretico, di tutti i “cattivi” assoluti, dei responsabili del “male”, dei colpevoli di tutto).  Finito il “sogno” del futuro diverso e possibile, restano, soprattutto nella cosiddetta cultura della sinistra, gli incubi del presente e una passione triste; resta per l’appunto la spinta ad assorbire e spremere solo l’indignazione e la disperazione. 

mercoledì 26 marzo 2025

La vita negoziabile di Luis Landero

 



La negoziabilità di Landero è non prendere tutto per un assoluto. E soprattutto a non prendere per un assoluto la propria vita e quelle che si immaginano essere le proprie ambizioni (e quindi la stima di se), i propri desideri, le proprie convinzioni. Negoziare tutto con la realtà per contenere una spinta narcisistica che nei personaggi di Landero tende ad andare fuori controllo, che anzi sta proprio al di fuori della sfera illuminata dalla consapevolezza. Anche i due suoi romanzi migliori Pioggia sottile e Una storia ridicola sono splendidi e questo tipo di soggetto hanno al centro.

Le figure genitoriali nel mondo dei romanzi di Landero tendono a sfuocarsi fino a dissolversi in un fumo, una nebbia; e nebbiosi diventano i legami, le emozioni, gli attaccamenti. Landero li racconta con una nitidezza cinica che sconfina serenamente e senza un tremore  nella crudeltà.

La prosa, come negli altri romanzi che ho citato, è di eccellente qualità. Il libro, come tutti quelli di Landero, procurano il piacere puro della lettura che solo un bel romanzo sa dare.
La struttura è da racconto picaresco con la trama che si muove senza troppo badare alla credibilità, alla coerenza che non sia quella con il carattere del protagonista, per privilegiare da una parte il ritmo e dall’altra per far emergere la distorsione dei meccanismi mentali. 
A proposito di distorsioni, mi è piaciuto molto il modo in cui racconta  l’amore: un “malessere” e una ipocrisia  del sentimento (subdolo e nel suo fondo, falso), che nasconde solo pulsioni (vere e nel loro fondo laide) e che si risolve all’interno di una lotta fisica, di una reciproca violenza non solo mimata. Infine sbava in un pallido languore e si dissolve. Quando crede di innamorarsi (ma le sue sono solo fascinazioni che hanno per oggetto l'immagine di sé che il suo oggetto "d'amore" gli riflette) il protagonista vede esasperarsi la sua sindrome narcisa fin quasi ad impazzire. Lí sta il punto di eruzione del suo magma interno, nella relazione affettiva e Landero lo racconta molto bene.

domenica 23 febbraio 2025

Il giorno dell'ape di Paul Murray





Un romanzo lungo (di pagine), largo (per la quantità scenari narrativi, personaggi, ambienti, temi), vario (con lo stile espressivo che cambia in funzione dei personaggi in scena, riuscendo a mantenere un timbro stilistico sempre riconoscibile), teso (con una trama in crescendo che si stringe attorno al lettore come un cappio; all’inizio può sottovalutarne il potere che avrà di trascinarlo e il finale fa l’effetto di uno strangolamento; vorresti almeno altre dieci pagine che ti restituiscano il respiro; e invece impietosamente  e giustamente non ci sono), intenso (per le emozioni che genera e le reazioni che sa suscitare: dalla risata al sorriso amaro, alla paura, alla commozione). 

Un romanzo piantato con un’antenna al centro dei nostri tempi a captarne e trasmettere umori, tic, tragedie, miserie, desideri e soprattutto disperazione. 

Un romanzo con il cuore cupo, pesante, che però sa ingannare con la leggerezza  il lettore e poi sa sorprenderlo, quando ormai ci sta dentro fino al collo e non può più scappare.

Una prova di bravura nell'architettura del racconto con uso sapiente delle anticipazioni, dei flashback, dell'implicito, lasciando al lettore spazi sconfinati per immaginare, completare e soprattutto riflettere. Senza poter far meno di accorgersi che alcune metafore, certe  descrizioni, alcuni passaggi sono proprio delle perle, per l’originalità, oltre che per la precisione e la forza evocativa.

Sicuramente una dei romanzi migliori degli ultimi anni.

giovedì 13 febbraio 2025

L'anniversario di Andrea Bajani

 

Visto che in Italia (non solo in Italia, ma qui soprattutto) dobbiamo per forza arrenderci all’autobiografismo, che almeno sia buona roba. E questo romanzo è davvero roba buona. La cosa migliore letta negli ultimi mesi. Non a caso segnalato da Carrere.

Un altro libro sulla madre. Forse il miglior romanzo italiano del ’24 è stato anche quello un libro su una madre (Il fuoco che ti porti dentro, di Franchini). 

Sarebbe strano d'altronde, mentre tutti parlano di patriarcato, di maschi narcisi, eterni adolescenti o assassini, di padri manipolatori e violenti o amorfi e assenti, che non venisse raccontata, senza la pietà che viene negata ai padri, anche l’altro cardine delle famiglie patologiche. 

Non che anche qui manchi un padre terribile. Anzi, forse potremmo scambiare lui per il protagonista. Ma non è vero. La figura più straordinaria, tutta guardata sul negativo, nel senso fotografico del termine, è sicuramente la madre.

Le tipologie in cui raggruppare le madri infelici e infelicitanti sono tante. Per elencare le più tremende, giusto a mo’ di esempio: c’è quella iperpresente ingiuntiva e punitiva; c’è quella frustrata implacabile e proiettiva; quella assente seduttiva e castrante; quella imprevedibile sadica e depressiva; quella sottomessa e ansiogena. 

La madre raccontata da Bajani appartiene all’ultima categoria, ma ne rappresenta una versione forse comune, ma di sicuro estrema; di una potenza letteraria diversa da quella di Franchini, ma di sicuro non minore. Viene radiografata con precisione, in profondità, con la calma di un figlio che ha mangiato a lungo pane e angoscia, lo ha digerito e ne ha tirato fuori l’energia e il coraggio per liberarsi dal dolore, dalla madre e dalla famiglia. E glien’è avanzato, di coraggio e di energia, per guardare indietro e cerchiare con questo romanzo l’anniversario del decennale della liberazione.

Scrivere un romanzo così riuscito con questi ingredienti mentali infuocati come l’aria dell’inferno dev’essere stato un parto podalico. Dice di averlo scritto di getto e di averci poi lavorato molto a lungo. Alla lettura si percepisce, questo tipo di gestazione. Perché restituisce con immediatezza il dramma e i suoi protagonisti con il loro carico di sofferenza, ma ha anche la precisione, l'asciuttezza, persino l'eleganza di chi è stato capace di mettersi a distanza. L’effetto sul lettore è un grumo insieme di emozioni e di spunti che prima ti danno una botta allo stomao e poi ti spingono ad alzare gli occhi sulla pagina e gettarli nel baratro più meno profondo che ognuno si porta dentro.

In tutti e due i romanzi, questo e il romanzo di Franchini, la domanda che ronza per tutto il tempo all’orecchio del lettore è quanto grande sia, nonostante tutto e nonostante il silenzio sull’argomento, quanto grande sia l’amore che il figlio che racconta porta a quella madre con cui raccontandola sta implacabilmente facendo la sua resa dei conti. Non lo dice chi scrive. Non è giusto che lo dica io che ho letto. Dentro quel silenzio però sta il fondo di quel baratro interiore che ognuno custodisce nel più inviolabile dei tabernacoli.

Sarebbe stato bastante tutto questo, ma il romanzo è anche e forse soprattutto un inno, anche quello calmo e argomentato, al romanzo, alla pratica del trasformare la vita in racconto, riempiendo i vuoti della memoria con una immaginazione governata, con il pensare lungo sulla pagina, con la scelta attenta delle parole. E’ dalla letteratura, dalla vocazione e dall’esercizio di innestare l’immaginazione sulla realtà che il figlio trova quella distanza, quella energia e quel coraggio che gli servono per liberarsi e cerchiare l'anniversario.

Può’ darsi sia vero che la letteratura non ha mai salvato nessuno dalla infelicità e dal dolore. Però questo libro dimostra che scrivere e leggere aiuta a dare loro un senso e a portarseli dentro.

mercoledì 12 febbraio 2025

Kairos di Jenny Erpenbeck e il Dottor Zivago

 




Ad un certo punto della lettura può venire di pensare ad un grande romanzo, al Dottor Zivago di Pasternak. Altro livello, certo, per stile, complessità, respiro storico e potenza narrativa, ma il punto di contatto c’è ed è evidente.

(Qui se n’è scritto

https://scarabooks.blogspot.com/2017/11/il-dottor-zivago_5.html#more)


Anche questa è una storia d’amore infelice che scorre parallela alla storia innescata dalla illusione del comunismo realizzato. Lì eravamo ai tempi della rivoluzione russa di ottobre, ai suoi tristi esordi. Qui siamo alla caduta del muro di Berlino che a quella nefandezza mise fine. Come nel dr Zivago, il romanzo racconta in parallelo il fallimento della rivoluzione d’ottobre e il fallimento dell’amore. Lì un amore che stenta e muore senza dare felicità. Qui un amore che esplode e muore tra i suoi vapori tossici. 

Dunque, la rivoluzione sovietica, i suoi prodotti storici, gli amori tossici. Due illusioni, due diverse concatenazione di errori che si possono ricondurre allo stesso minimo comune denominatore: l’ambizione totalizzante e totalitaria, che è l’errore primario, in politica come in amore. Il peccato di narcisismo, soprattutto maschile e quello dell’ideologismo, che hanno devastato un secolo, messi l’uno di fronte all’altro o, appunto, in parallelo.

Un errore, quello di tentare di ricostituire una monade con l’oggetto d’amore elevato e degradato ad oggetto di rispecchiamento che i maschi del nostro tempo non riescono ad accettare. 

Un errore, quello della imposizione totalitaria del ”bene”, di una società più giusta, che gli eredi della tradizione comunista non riescono ancora oggi neppure vedere. Volevamo una cosa buona, “più elevata” dicono. Sono stati commessi errori, ma l’intenzione resta elevata. Al contrario delle intenzioni che muovevano l’altro totalitarismo del novecento, quello nazi-fascista, vista (giustamente) come cattiva perché nazionalista, razzista, bellicista.

E invece l’errore di base che li accomuna tra loro e li fa assimilare all’errore del narcisista sta proprio nella illusorietà e nella disumanità del progetto totalizzante che vuole fondere le vite e le esperienze e le sensibilità, che annulla le differenze, che soffoca la libertà (anche quella di sbagliare). In amore, come nella grande storia.

“Un anno di fedeltà lo avrebbe indotto a impegnarsi con lei. Sempre più avanti e sempre più in alto. Ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni, così sarebbe in un lontano futuro, con il comunismo. Questo lei non lo vivrà, e probabilmente nemmeno i loro figli lo vivranno, se mai ne avessero, forse potrebbero goderne i nipoti, aveva detto l’insegnante di educazione civica. Ma lei si era rivelata indegna. Da ciò che aveva fatto non poteva svilupparsi un livello più elevato….

Perché mai si dice «verso l’alto», quando si tratta solo di un’altra forma di convivenza fra esseri umani? Dov’erano l’alto e il basso nella storia dell’umanità?”

Un errore che nega il valore della differenza, della diversità, del diritto umano di sbagliare. Nelle storie dell’amore, come in quelle dei popoli….

Nessuno, dice Rosa, può dissolversi completamente in un altro. D’altronde è bello, dice, che ci siano delle differenze. Dunque rimane sempre un resto. Ed è proprio il resto la parte interessante. Ma in quel resto si annida anche ciò che potrebbe far esplodere la relazione. Oppure no, dice Rosa. Bisogna semplicemente trovare qualcuno con cui ci si trova bene fin dall’inizio. Bene anche con quella componente sconosciuta che è presente in entrambe le parti? Sì.”

E poi c’è nel romanzo la lezione per cui non c’è fine che possa giustificare i mezzi: l’inquisizione, la colpevolizzazione, la confessione più o meno estorta. Le purghe staliniane ricordate a fronte del tormento imposto dal maschio narciso tradito, che vuol indagare, che tormenta, che pretende di punire, che prova sollievo nel produrre dolore. Se c’è una cosa che il novecento ci deve insegnare è che è vero il contrario: sono i mezzi che rendono giusto o meno un fine. Se un fine, per essere raggiunto, richiede mezzi sbagliati, allora il fine è sbagliato e va prima corretto e poi perseguito con mezzi che siano “giusti”.

L”indagine” di Hans è un mezzo sbagliato per un fine che infatti è altrettanto sbagliato. Quello di fondere, rendere omologhe due vite, di negare il diritto all’errore. La differenza di età contribuisce a creare per reazione al rigetto dell’ambiente sociale circostante, una tentazione che chiude e rende tossico il rapporto.

Il tradimento di Katharine viene vissuto e raccontato come i tradimenti, reali o presunti, dell’epoca staliniana.

Il socialismo in un paese solo corrisponde alla coppia chiusa senza spazio per la comprensione degli incroci e degli errori davanti a cui la vita e la storia mette gli uomini, le donne, i popoli.

Ma nel romanzo c’è anche tutto il dolore di un popolo, quello della Germania dell’est prima tormentato, poi umiliato dalla storia e infine trascinato nella crisi epocale in cui la società occidentale sta precipitando e non lo sa ancora. L’ubriacatura consumistica e l’illusione di una libertà dominata da feticci è descritta benissimo nell’ultima parte del romanzo.

Dove prima c’era una prospettiva, adesso tutto si raggomitola in un inestricabile garbuglio di possibilità. Ciò che un tempo era familiare ora sembra andar scomparendo. La familiarità buona, al pari di quella cattiva.

È dunque questa la libertà? L’assenza di un avversario che abbia un nome?

La Coca-Cola è riuscita là dove non era riuscita la filosofia marxista, ha unito sotto un unico simbolo i proletari di tutto il mondo.”

Un romanzo che ha una sua voce, un suo timbro narrativo ben identificabile, forte; anche se non mancano le stonature, gli eccessi di sperimentalismo, le cadute di ritmo. L'impressione è che abbia troppe cose da dire, che voglia scandagliare troppo e troppo in profondità, finendo per affaticarsi e affaticare. Resta comunque un gran bel romanzo.

Soprattutto perchè ha il merito di di centrare un aspetto importante dei tempi che abbiamo vissuto e del male che ancora ci portiamo dentro

giovedì 27 aprile 2023

Guerra e pace di Lev Tolstoj

 






Va bene che i classici li chiamiamo così perché hanno la capacità di andare oltre il loro tempo, il tempo in cui sono stati scritti e in cui sono ambientate le loro storie.  Sanno cioè continuare a parlare delle cose umane  anche alla modernità più lontana nel futuro.

Va bene che più si attraversano gli anni e i libri, più si  scopre la bellezza delle riletture. Perché le riletture sono affrancate dalla febbre della trama, dagli imbarazzi del primo incontro con i personaggi, dalla più o meno piacevole fatica di scoprire stilemi e meccanismi narrativi. La leggerezza fa guadagnare alla rilettura lo sguardo alto e la profondità della penetrazione nel testo. Fa venir fuori il puro piacere che viene dalla bellezza della lettura.

Per fare un esempio,  è purissima bellezza letteraria la potenza drammatica dell’annuncio della morte di Petja prima a Natascia, mentre sta tentando di elaborare il senso e il lutto della morte di Andrej e poi alla madre. È paragonabile per forza emozionale forse alla scena di Cecilia e della madre nei Promessi sposi. Ambedue di una resa romanzesca quasi insostenibile. La potenza drammatica alla prima lettura abbaglia. Alla seconda avvolge.

Va bene tutto questo, però rileggere Guerra e pace e pensare per tutto il tempo che Tolstoj era uno di noi, un uomo del novecento, è tutta un’altra cosa. Alla rilettura balza fuori evidente. Tolstoj è morto nel 1910, ma i suoi romanzi maggiori sono stati scritti nella seconda metà dell’800 e di quel secolo portano ovviamente l’impronta. Eppure  lo si può davvero leggere come un autore del nostro tempo, ben al di là del contesto storico ed al di là del fatto, nel caso di Guerra e pace,  che di un romanzo storico si tratta. Ma le piccole storie, persino quelle autobiografiche, come la grande Storia, se filtrate nel laboratorio del romanzo da un grande narratore, travalicano i limiti della vicenda e parlato a tutti e di tutti, al di delle epoche e degli individui.

Va anche detto che la nuova traduzione di Emanuela Guercetti accende un’altra luce sulla lettura.

Il primo tratto  di modernità sta nella riproposizione, in pieno positivismo, della centralità del Mistero e della consapevolezza della povertà degli strumenti umani davanti ad esso. Bisognerà aspettare l’emergere degli enigmi della meccanica quantistica e della relatività, perché questa percezione torni ad essere dominante, comune. E il  Mistero in Tolstoj è quello novecentesco: il mistero dell’essere, dell’esistere tra due nulla; è anche  il mistero  del fenomeno lancinante della coscienza umana dell’esistere e del morire; infine é il mistero della imperscrutabilità che diventa ora anche irrintracciabilità del divino. C'è la ricerca disperata di un dio ordinatore della mente e della Storia che sembra sparito.

Il secondo sta nel sé narcisista ed ipertrofico, anche quello potentemente novecentesco,  di Tolstoj. E che è il suo motore creativo, la forza che lo faceva sedere a scrivere. Un bisogno di riconoscersi e compenetrarsi nel Tutto, che si scontrava con quella percezione del dubbio e col rifiuto di accettare la propria morte e la “morte di dio” di cui si diceva. I suoi personaggi, Andrej e Pierre su tutti, cercano disperatamente una via di salvezza dal nulla.  Vogliono continuare a comprendere e tener il mondo dentro un logica, dentro un senso, che per quanto inafferrabile, lo trascenda e lo/li affranchi dalla dissoluzione, prima morale e poi fisica. Ma la  vera rappresentazione di  Dio in Tolstoj è il suo sé, che vuol fondersi col reale, cerca una onnipotenza perduta di cui conserva la memoria e la nostalgia.

Il terzo è nella visione religiosa a cui, con questa ricerca disperata del divino, approdano Tolstoj e i suoi personaggi. Una visione che sta al di sopra delle chiese e delle dottrine e che si fonda su bontà e accettazione, su comunione e passività. Una visione che Tolstoj proietta sulla Storia assumendo la strategia del ritiro del generale  Kutuzov, come paradigma non solo militare e politico, ma esistenziale. L’abbandono di Mosca e la ritirata verso est dei russi davanti all’ invasione napoleonica diventa non solo una dimostrazione di patriottismo attraverso la passività e la negazione dell’azione, ma di accettazione ribelle, di sconfitta trionfante, di non azione vincente. Citati, nel suo bellissimo volume su Tolstoj, l’ha definita una forma di taoismo cristiano e probabilmente ha ragione. La volontà di Dio di Tolstoj è molto diversa dalla resa alla Provvidenza di Manzoni: è un lasciar andare, un assecondare il corso delle cose, e insieme uno artificio strategico per vincere.

Infine sia in pace che in guerra, sia nelle dinamiche famigliari e sentimentali che in quelle politiche e militari,  l’adesione ad una religione e ad una identità di nazione, di famiglia, di ruolo mostra sempre il segno, la ferita profonda e dolorosa del dubbio di arbitrarietà, di inconsistenza, di vanità. C’è l’incombere del nulla novecentesco in Tolstoj. E tutte le regole, tutti i piani umani di mettere ordine, di imporre un senso alle cose appaiono, già al concepimento, ridicolmente confutabili e vani. Basta cambiare visuale e condizione sociale, psicologica, economica o basta un fatto traumatico (una malattia, una ferita, una perdita, un amore e quant’altro), basta un raffreddore nel caso di Napoleone  e tutto cambia senso e colore, tutto precipita in una sconfitta. Perchè non c’è più un criterio assoluto di discrimine, non c'è più chi traccia il confine certo e stabile tra bene e male.

Con la storia e gli storici, Tolstoj assume toni di invettiva, da pamphlet più che da romanzo storico. Gli aspetti più forse più interessanti della visione della Storia di Tolstoj sono due. Il primo è quella  per la quale è impossibile ricostruire quel che è accaduto senza partire da una qualche Verità rivelata, la sola che consentirebbe di individuare davvero la genesi dei fatti e di distinguere il Bene dal Male. Se viene meno quella, ogni ricostruzione è parziale, arbitraria, nel complesso falsa. Il secondo è la spersonalizzazione della dinamica dei processi storici collettivi. Come quelli della vita individuale, sono il prodotto di un complesso di forze, di fattori che sfuggono al dominio dell’individuo (e quindi anche dell’eroe, del capo, di una classe dirigente, come delle masse che stanno per irrompere nella grande Storia) e producono effetti indipendenti da qualsiasi umana volontà. Uno gnommero direbbe Gadda, che di questa percezione della complessità fece un cardine della sua visione del mondo. 

 La non azione di Tolstoj, il suo rigetto verso ogni pretesa di ricostruire i fatti dando loro un senso ed una spiegazione univoche e ancor più verso la velleità  di orientare e modificare i processi (da quelli naturali delle malattie, a quelli militari, a quelli politici e storici, a quelli dei sentimenti) ha una faccia ribelle, anarchica, insofferente, febbricitante, irritata, a volte violenta. Esemplari, oltre che bellissime, sono le pagine che raccontano la reazione di Rastopcin, il comandante in capo di Mosca, davanti alla fuga di massa dei moscoviti. In  frangenti come quello l’uomo di Tolstoj alle prime reagisce, cerca di scovare di chi è e dove sta la colpa, divide il mondo in vittime e carnefici, individua capri espiatori, cerca e vuole i nemici, li uccide. È il canovaccio psicologico prima che storico del  secolo che verrà. Un  modo per negare e nascondere la frustrazione di chi vorrebbe essere onnipotente e si scopre invece impotente. Impotente davanti alla morte, al nulla, alla complessità, alla incomprensibilità e ingovernabilità delle cose, di quel Tutto che invece ambirebbe appunto a dominare fino a fondersi con esso.

Poi,  quando i suoi personaggi sono soli davanti alla morte e all’irreparabile (le pagine della morte di Andrej o della prigionia di Pierre sono magnifiche ed esemplari), questo bisogno di salvezza finalmente trova la strada di una evazione mistica, in una accettazione, in una passività che regala almeno l’illusione di una pace. E anche questo parla al nostro tempo.




venerdì 31 marzo 2023

I romanzi di Laszlo Krasznahorkai







Qual è il romanzo migliore di  Krasznahorkai? 

Leggerne uno qualsiasi e porsi questa domanda significa arrivare sempre alla stessa risposta.

E’ senza dubbio il più grande scrittore vivente che si può incontrare. Lo è per la potenza visionaria nel costruire le storie, per il livello di profondità della riflessione filosofica da cui cui i suoi libri risalgono, per la complessità e la bellezza della sua prosa.

Le letterature dell’est stanno producendo in questi ultimi anni le cose migliori che si trovano in giro. Penso anche a Cartarescu e a Gospodinov soprattutto. E per una ragione precisa che li accomuna. Perché riescono ad elevare l’ultimo grande tracollo della storia contemporanea, quello dei regimi del comunismo reale, a paradigma del tracollo nichilista della metafisica dell’uomo contemporaneo e della percezione ormai comune del (non)senso che ha il vivere nell’universo e nel nostro piccolo mondo così come possiamo percepirli ed interpretarli oggi. Sembra che il crollo dell'ultima utopia apra la strada al trionfo del nulla. E Krasznahorkai anche nel racconto di questa percezione è il più grande. 

Pochi scrittori hanno un livello di qualità così alto e così omogeneo nei romanzi che hanno pubblicato nel corso degli anni. E’ per queste ragioni che ogni volta che si finisce di leggerne uno dei suoi libri, sembra è il migliore. 

Poi si va  a riguardare li precedenti e ci si accorge che ogni classifica è arbitraria. Quindi la risposta alla domanda è semplicemente che sono tutti bellissimi. 

giovedì 30 marzo 2023

Diario di un'estate marziana di Tommaso Pincio


In quest’anniversario dei 50 anni dalla morte di Ennio Flaiano, di tutti i libri e di tutte le commemorazioni in tv o in teatri, librerie e biblioteche in cui sono più meno piacevolmente incappato, questo diario di Pincio è la cosa migliore. 


Ha disegnato l’immagine forse più vera, ha reso la sostanza letteraria e umana più autentica di Flaiano. O almeno di quella che anch’io, da suo lettore fedele, mi porto dentro ormai da decenni. Una sostanza fatta da alcuni ingredienti fondamentali, che Pincio, scrivendo un diario che potrebbe essere anche letto come un auto-analisi o un romanzo-memoir o un saggio, ha individuato molto bene. La profonda malinconia che li accomuna innanzitutto; il “broncio infantile” a nascondere e insieme ad amplificare l’effetto delle fiammate di intelligenza, di ironia, di acume che si trovano nei scritti di Flaiano e che tutti dicono si alzavano nella sua conversazione. La malinconia e il broncio come atmosfera mentale di fondo, che nascevano (e nascono sempre) dalla infanzia negata; quella che ti lascia l’alone indelebile della percezione di essere inadeguato e dunque immeritevole di attenzione, rispetto, affetto e quindi destinato ad essere respinto.


Poi Pincio individua e spiega la centralità nella visione di Flaiano del mondo di due idee-chiave: l’idea dì inutilità, di vanità delle cose e l’idea dell’errore e dell’equivoco come criterio base della interpretazione delle scelte e dei fatti. Infine c’è la pratica della mortificazione. Quella subita (dell’infanzia, in una famiglia che lo aveva allontanato e della giovinezza, negli anni tristi del fascismo e della guerra coloniale) e quella agìta. La mortificazione cioè che usava per spegnere gli effetti che gli producevano i riconoscimenti, i segni del successo che gli venivano tributati troppo tardi e per motivi e moventi a cui non credeva e che non prendeva sul serio. La stessa mortificazione che usava anche per arrivare alla rassegnazione davanti al dolore degli insuccessi e degli insulti del destino e che gli disegnava sul viso una sorta di “sorriso dell’impiccato” (come si dicesse a se stesso “vedi? Che ti avevo detto?”). 


Viene fuori nel libro anche il rapporto con Fellini, che ha riempito il suoi film dei fantasmi di Flaiano senza mai riconoscergliene la paternità e il rapporto di “odiamore” con Roma. Due tradimenti paralleli e mai davvero perdonati. Lettura utile, ma anche assai piacevole, soprattutto per la “voce” che Pincio trova: soffusa, malinconica (molto da serata estiva romana), che dà un’idea di autenticità e di calore.

mercoledì 29 marzo 2023

La ricreazione è finita di Dario Ferrari



Non mi è per niente “un grande romanzo italiano”, come dice qualcuno. Finché sta sul protagonista-narratore regge bene. È originale, ha una sua freschezza di stile, rende bene personaggi, ambienti, epoca. Ed è giusta anche la voce quando racconta di Viareggio, della fidanzatina, del mondo accademico e delle sue figure (un po’ troppo macchiettistiche, ma funzionano), anche di un certo neo-vitellonismo anni ’70-80. 

Quando passa a parlare dello scrittore-terrorista e dei suoi compagni (la biografia di Tito Sella, in particolare, ricostruita non si capisce bene come) diventa approssimativo, poco credibile e molto opinabile come rappresentazione degli anni di piombo. Nemmeno come versione parodistica dà l’idea di cosa è stato. Soprattutto diventa noioso. Il personaggio manca di messa a fuoco, resta immerso in una nebbia. E tutta la sua vicenda non sta proprio in piedi. Il parallelismo con il protagonista narratore poi, che dovrebbe giustificare l’esistenza stessa del romanzo oltre che la sua struttura, mi pare cosa confus’assai. Di buono resta solo la voce narrante .

Insomma è un romanzo disomogeneo e largamente imperfetto, con una trama cucita male ed un finale ad effetto, appunto, che scivola nel noir come avrebbe potuto scivolare nella fantascienza o nel romanzo rosa. Tutto piuttosto arbitrario e approssimato. Insomma una cosa non da buttare, per la scrittura soprattutto, ma in linea con la mediocrità italiana del momento. Niente di più.

martedì 28 marzo 2023

Lezioni di Ian McEwan

 



Un bel romanzo, di quelli veri: largo, lungo e pieno di Storia e di storie. Poi, McEwan ha una delle voci narranti più belle ancora in circolazione. La usa (anche qui) per soggetti e trame molto strutturate e spesso disturbanti (ma questo lo è meno del solito). Ha scritto alcuni romanzi indimenticabili e alcuni molto meno. Però che la sua prosa, il suo stile, la sua tonalità di racconto avvolgano il lettore e siano un insieme inconfondibile, questo è sicuro. E anche in questo libro è così.

Nei suoi romanzi c’è sempre una profusione dei dettagli di ambiente, dei retropensieri, delle piccole e grandi vicende che sottostanno a oggetti e atteggiamenti. In “Lezioni” più che in altri questa cosa funziona come un’arma a doppio taglio. Da una parte tenderebbe ad annoiare il lettore che vuole ritmo (McEwan, anche per questo, non piace a tutti). Dall’altra compensa l'andamento lento della trama, che peraltro per lunghi tratti, esasperando il ricorso al flashback, è più una trama all'indietro che in avanti. E così, il sapere e con gli aggettivi giusti e la giusta tonalità di narrazione, in un ricevimento per esempio, cosa si mangia, di che si parla, che musica c’è in sottofondo, che fanno i bambini, che tempo fa fuori e com’è la temperatura dentro, quali sono i rimandi nel passato delle cose anche minime che succedono, ti fa abitare quel salotto e quindi il romanzo, aspettando di capire dove si va a parare. Non bisogna avere fretta, nel leggerlo.

Anche perché merita la pazienza che impone. E' un romanzo importante nell'opera di McEwan. Insieme con il suo personaggio sembra fare una resa dei conti, un riepilogo di senso della sua storia e insieme della grande Storia degli ultimo secolo. E ha come primo merito quello che ci si affeziona e si partecipa al destino di questo personaggio. Alla fine diventa un caro amico e non si può non pensare che il libro sia una sorta di testamento dolceamaro dell'autore. Leggendo, ho anche pensato a Stoner (salendo di livello) e (scendendo invece; e parecchio) al Colibrì di Veronesi. Qualità a parte, rispetto a tutti e due, è senz'altro maggiore la quantità e la complessità dei temi che tira fuori. Complessivamente credo sia uno dei compendi, dei ritratti più efficaci dell'epoca che ci è toccato di attraversare. A voler entrarci dentro, al merito dico, il commento occuperebbe lo spazio di un trattato. Quindi, anche per questo, si può solo consigliare di leggerlo.