Peccato. Non mi ha entusiasmato. La de Kerangal oltre ad essere la scrittrice col nome più musicale del mondo (per l’esattezza Maylis Suzanne Jacqueline Le Gal de Kerangal) è anche una di quelle che seguo con più piacere, da qualche anno ormai. Per lo stile elegante, i soggetti originali, la voce narrativa calda, le storie dense di suggestione e la capacità di rendere la sofferenza e le paure del nostro tempo attraverso la storia dei corpi e degli spazi fisici. Anatomia e architettura per raccontare le angosce dei viventi, l’agire del passato sul presente, il tentativo di trovare un rifugio o un’armonia nella corrente delle cose e dei fatti.
Tutto questo c’è anche in "Giorno di risacca". C’è un cadavere senza nome e una donna che vagabonda nel tempo e nello spazio per risolvere il suo mistero, ma c’è soprattutto una città e il suo mare (Le Havre). Una città che si porta dentro sedimentata la struttura fossile del suo passato di città portuale, di città di mare uscita distrutta dall’ultima grande guerra. E’ vero, come si legge in giro, che è la città la vera protagonista. Senonchè stavolta, apre troppi fronti, troppi scenari e finisce che il racconto perde la sua unità, il suo ritmo. Poi, la magia della si fa inquinare dall’attualità e induce al sospetto di “voler stare sul pezzo” e “dalla parte giusta” sui “temi del momento” e per quanto mi riguarda non c’è cosa che capace di rovinarmi di più il piacere della lettura.
Da lettore patologico di letteratura, quando uno scrittore infila dentro ad un romanzo temi di attualità per lanciare messaggi o peggio per ammiccare (scambiando il lettore per un immaginario sodale, o per provocare una reazione a chi sta “dall’altra parte”) è come se qualcuno si mettesse a fare il ragù mentre faccio colazione. Anche perché di solito il precipitare della qualità dello stile è la prima conseguenza, come la puzza di soffritto.
Se una volta (quando tra scrittori e lettori dominavano i malati di ideologismi e tutto serviva a “far passare il messaggio”) era una cosa per lo più esteticamente brutta, ma aveva un suo perverso senso. Perché un progetto c’era, da qualunque parte si stesse schierati. E schierarsi era quasi un obbligo, un fluire naturale col corso della storia, dovunque ci si collocasse. Adesso è solo una forma antistorica, residuale di idiozia o di cattivo gusto, un approssimare grossolanamente, un rifiutare di scandagliare la complessità delle cose. Il romanzo ne ha beneficiato: ha riconquistato la forza della sua connaturata ambiguità, il potere di suscitare dubbi e domande e di negarsi ad ogni certezza e ad ogni verità, la capacità di assumere sempre nuove forme di struttura e di espressione per riflettere la complessità della vita e della storia.
Ricadere nelle tentazioni della militanza oggi serve solo a dimostrare che chi di ideologismo era malato non è mai guarito. Oppure che ci si adagia in una corrente e ci si fa trascinare.
E la corrente dominante è passata dagli ismi del novecento (fascismo, comunismo, nazionalismo, fideismo religioso) ai loro simulacri del dopo novecento (ecologismo, pacifismo, genderismo, iperliberismo, cialtronismo populista di “destra” e di “sinistra”, neoidentitarismi e neonazionalismi, ribellismo straccione, razzismi più o meno consapevole e mascherati). Sono frammenti di specchi rotti; sono metadone. Però gli effetti che si cercano in essi sono identici: la stessa febbriciattola agitatoria con punte convulsive che ci tenga precariamente uniti in una parte; gli stessi pruriti allergici che ci tenga divisi da chi sta dall'altra parte; la stessa spinta a propagare e propagandare una qualche "verità" che ci spinga in piazza.
In questo libro anche la de Kerangal cede alla tentazione dell'attualità: Ucraina con antimilitarismo e immigrazione (con tonalità pietista), intelligenza artificiale (con tonalità passatista e catastrofista: “non sono riusciti ancora a clonare i sentimenti”), narcotraffico e commercio globale. Il tutto con la tonalità tanto di moda e tanto comoda da solidarietà vittimistica, di rassegnata indignazione. Perché, in assenza di progetti, è proprio la rassegnata indignazione lo sbocco che gran parte del romanzare finisce con l’assumere, quando sceglie di essere militante osemplicemente di rincorrere la nostra attualità.
E lì, senza voler spoilerare, finisce coll'atterrare anche "Giorno di risacca". In una tonalità di impotenza rassegnata. E' quel accade, se ci fate caso, anche nella gran parte delle quotidiani narrazioni e conversazioni che ci capita di ascoltare in tv, nei salotti, nei bar. E troppo difficile, quasi impossibile, tentare di capire come stanno davvero le cose, in mancanza una bussola concettuale. Lo è sempre stato, ma gli ideologismi e quindi anche i loro simulacri di oggi, come tutte le fedi consentono di aggirare il problema, di risparmiarsi la fatica.
E' svanita, con la certezza di avere una chiave, anche la speranza o la velleità di “cambiare le cose”. Il “progetto” è sparito insieme con la faccia del nemico (del padrone o dell’eretico, di tutti i “cattivi” assoluti, dei responsabili del “male”, dei colpevoli di tutto). Finito il “sogno” del futuro diverso e possibile, restano, soprattutto nella cosiddetta cultura della sinistra, gli incubi del presente e una passione triste; resta per l’appunto la spinta ad assorbire e spremere solo l’indignazione e la disperazione.