Va bene che i classici li chiamiamo così perché hanno la
capacità di andare oltre il loro tempo, il tempo in cui sono stati scritti e in
cui sono ambientate le loro storie.
Sanno cioè continuare a parlare delle cose umane anche alla modernità più lontana nel futuro.
Va bene che più si attraversano gli anni e i libri, più
si scopre la bellezza delle riletture.
Perché le riletture sono affrancate dalla febbre della trama, dagli imbarazzi del
primo incontro con i personaggi, dalla più o meno piacevole fatica di scoprire stilemi e
meccanismi narrativi. La leggerezza fa guadagnare alla rilettura lo sguardo
alto e la profondità della penetrazione nel testo. Fa venir fuori il puro
piacere che viene dalla bellezza della lettura.
Per fare un esempio,
è purissima bellezza letteraria la potenza drammatica dell’annuncio
della morte di Petja prima a Natascia, mentre sta tentando di elaborare il
senso e il lutto della morte di Andrej e poi alla madre. È paragonabile per
forza emozionale forse alla scena di Cecilia e della madre nei Promessi
sposi. Ambedue di una resa romanzesca quasi insostenibile. La potenza
drammatica alla prima lettura abbaglia. Alla seconda avvolge.
Va bene tutto questo, però rileggere Guerra e pace e pensare per tutto il tempo che Tolstoj era uno di noi, un uomo del novecento, è tutta un’altra cosa. Alla rilettura balza fuori evidente. Tolstoj è morto nel 1910, ma i suoi romanzi maggiori sono stati scritti nella seconda metà dell’800 e di quel secolo portano ovviamente l’impronta. Eppure lo si può davvero leggere come un autore del nostro tempo, ben al di là del contesto storico ed al di là del fatto, nel caso di Guerra e pace, che di un romanzo storico si tratta. Ma le piccole storie, persino quelle autobiografiche, come la grande Storia, se filtrate nel laboratorio del romanzo da un grande narratore, travalicano i limiti della vicenda e parlato a tutti e di tutti, al di delle epoche e degli individui.
Va anche detto che la nuova traduzione di Emanuela Guercetti accende un’altra luce sulla lettura.
Il primo tratto di modernità sta nella riproposizione, in pieno positivismo, della centralità del Mistero e della consapevolezza della povertà degli strumenti umani davanti ad esso. Bisognerà aspettare l’emergere degli enigmi della meccanica quantistica e della relatività, perché questa percezione torni ad essere dominante, comune. E il Mistero in Tolstoj è quello novecentesco: il mistero dell’essere, dell’esistere tra due nulla; è anche il mistero del fenomeno lancinante della coscienza umana dell’esistere e del morire; infine é il mistero della imperscrutabilità che diventa ora anche irrintracciabilità del divino. C'è la ricerca disperata di un dio ordinatore della mente e della Storia che sembra sparito.
Il secondo sta nel sé narcisista ed ipertrofico, anche quello potentemente
novecentesco, di Tolstoj. E che è il suo
motore creativo, la forza che lo faceva sedere a scrivere. Un bisogno di
riconoscersi e compenetrarsi nel Tutto, che si scontrava con quella percezione
del dubbio e col rifiuto di accettare la propria morte e la “morte di dio” di cui si diceva. I suoi personaggi,
Andrej e Pierre su tutti, cercano disperatamente una via di salvezza dal
nulla. Vogliono continuare a comprendere
e tener il mondo dentro un logica, dentro un senso, che per quanto
inafferrabile, lo trascenda e lo/li affranchi dalla dissoluzione, prima morale
e poi fisica. Ma la vera
rappresentazione di Dio in Tolstoj è il
suo sé, che vuol fondersi col reale, cerca una onnipotenza perduta di cui conserva la memoria e la nostalgia.
Il terzo è nella visione religiosa a cui, con questa
ricerca disperata del divino, approdano Tolstoj e i suoi personaggi. Una
visione che sta al di sopra delle chiese e delle dottrine e che si fonda su bontà
e accettazione, su comunione e passività. Una visione che Tolstoj proietta
sulla Storia assumendo la strategia del ritiro del generale Kutuzov, come paradigma non solo militare e
politico, ma esistenziale. L’abbandono di Mosca e la ritirata verso est dei
russi davanti all’ invasione napoleonica diventa non solo una dimostrazione di
patriottismo attraverso la passività e la negazione dell’azione, ma di
accettazione ribelle, di sconfitta trionfante, di non azione vincente. Citati, nel
suo bellissimo volume su Tolstoj, l’ha definita una forma di taoismo cristiano
e probabilmente ha ragione. La volontà di Dio di Tolstoj è molto diversa dalla
resa alla Provvidenza di Manzoni: è un lasciar andare, un assecondare il corso
delle cose, e insieme uno artificio strategico per vincere.
Infine sia in pace che in guerra, sia nelle dinamiche
famigliari e sentimentali che in quelle politiche e militari, l’adesione ad una religione e ad una identità
di nazione, di famiglia, di ruolo mostra sempre il segno, la ferita profonda e
dolorosa del dubbio di arbitrarietà, di inconsistenza, di vanità. C’è
l’incombere del nulla novecentesco in Tolstoj. E tutte le regole, tutti i piani
umani di mettere ordine, di imporre un senso alle cose appaiono, già al
concepimento, ridicolmente confutabili e vani. Basta cambiare visuale e condizione sociale,
psicologica, economica o basta un fatto traumatico (una malattia, una ferita,
una perdita, un amore e quant’altro), basta un raffreddore nel caso di
Napoleone e tutto cambia senso e colore,
tutto precipita in una sconfitta. Perchè non c’è più un criterio assoluto di discrimine, non c'è più chi traccia il confine certo e
stabile tra bene e male.
Con la storia e gli storici, Tolstoj assume toni di
invettiva, da pamphlet più che da romanzo storico. Gli aspetti più forse più
interessanti della visione della Storia di Tolstoj sono due. Il primo è
quella per la quale è impossibile ricostruire
quel che è accaduto senza partire da una qualche Verità rivelata, la sola che
consentirebbe di individuare davvero la genesi dei fatti e di distinguere il
Bene dal Male. Se viene meno quella, ogni ricostruzione è parziale, arbitraria,
nel complesso falsa. Il secondo è la spersonalizzazione della dinamica dei
processi storici collettivi. Come quelli della vita individuale, sono il
prodotto di un complesso di forze, di fattori che sfuggono al dominio
dell’individuo (e quindi anche dell’eroe, del capo, di una classe dirigente,
come delle masse che stanno per irrompere nella grande Storia) e producono
effetti indipendenti da qualsiasi umana volontà. Uno gnommero direbbe Gadda,
che di questa percezione della complessità fece un cardine della sua visione
del mondo.
La non azione di Tolstoj, il suo rigetto verso ogni pretesa di ricostruire i fatti dando loro un senso ed una spiegazione univoche e ancor più verso la velleità di orientare e modificare i processi (da quelli naturali delle malattie, a quelli militari, a quelli politici e storici, a quelli dei sentimenti) ha una faccia ribelle, anarchica, insofferente, febbricitante, irritata, a volte violenta. Esemplari, oltre che bellissime, sono le pagine che raccontano la reazione di Rastopcin, il comandante in capo di Mosca, davanti alla fuga di massa dei moscoviti. In frangenti come quello l’uomo di Tolstoj alle prime reagisce, cerca di scovare di chi è e dove sta la colpa, divide il mondo in vittime e carnefici, individua capri espiatori, cerca e vuole i nemici, li uccide. È il canovaccio psicologico prima che storico del secolo che verrà. Un modo per negare e nascondere la frustrazione di chi vorrebbe essere onnipotente e si scopre invece impotente. Impotente davanti alla morte, al nulla, alla complessità, alla incomprensibilità e ingovernabilità delle cose, di quel Tutto che invece ambirebbe appunto a dominare fino a fondersi con esso.
Poi, quando i suoi personaggi sono soli davanti alla morte e all’irreparabile (le pagine della morte di Andrej o della prigionia di Pierre sono magnifiche ed esemplari), questo bisogno di salvezza finalmente trova la strada di una evazione mistica, in una accettazione, in una passività che regala almeno l’illusione di una pace. E anche questo parla al nostro tempo.