giovedì 30 marzo 2023

Diario di un'estate marziana di Tommaso Pincio


In quest’anniversario dei 50 anni dalla morte di Ennio Flaiano, di tutti i libri e di tutte le commemorazioni in tv o in teatri, librerie e biblioteche in cui sono più meno piacevolmente incappato, questo diario di Pincio è la cosa migliore. 


Ha disegnato l’immagine forse più vera, ha reso la sostanza letteraria e umana più autentica di Flaiano. O almeno di quella che anch’io, da suo lettore fedele, mi porto dentro ormai da decenni. Una sostanza fatta da alcuni ingredienti fondamentali, che Pincio, scrivendo un diario che potrebbe essere anche letto come un auto-analisi o un romanzo-memoir o un saggio, ha individuato molto bene. La profonda malinconia che li accomuna innanzitutto; il “broncio infantile” a nascondere e insieme ad amplificare l’effetto delle fiammate di intelligenza, di ironia, di acume che si trovano nei scritti di Flaiano e che tutti dicono si alzavano nella sua conversazione. La malinconia e il broncio come atmosfera mentale di fondo, che nascevano (e nascono sempre) dalla infanzia negata; quella che ti lascia l’alone indelebile della percezione di essere inadeguato e dunque immeritevole di attenzione, rispetto, affetto e quindi destinato ad essere respinto.


Poi Pincio individua e spiega la centralità nella visione di Flaiano del mondo di due idee-chiave: l’idea dì inutilità, di vanità delle cose e l’idea dell’errore e dell’equivoco come criterio base della interpretazione delle scelte e dei fatti. Infine c’è la pratica della mortificazione. Quella subita (dell’infanzia, in una famiglia che lo aveva allontanato e della giovinezza, negli anni tristi del fascismo e della guerra coloniale) e quella agìta. La mortificazione cioè che usava per spegnere gli effetti che gli producevano i riconoscimenti, i segni del successo che gli venivano tributati troppo tardi e per motivi e moventi a cui non credeva e che non prendeva sul serio. La stessa mortificazione che usava anche per arrivare alla rassegnazione davanti al dolore degli insuccessi e degli insulti del destino e che gli disegnava sul viso una sorta di “sorriso dell’impiccato” (come si dicesse a se stesso “vedi? Che ti avevo detto?”). 


Viene fuori nel libro anche il rapporto con Fellini, che ha riempito il suoi film dei fantasmi di Flaiano senza mai riconoscergliene la paternità e il rapporto di “odiamore” con Roma. Due tradimenti paralleli e mai davvero perdonati. Lettura utile, ma anche assai piacevole, soprattutto per la “voce” che Pincio trova: soffusa, malinconica (molto da serata estiva romana), che dà un’idea di autenticità e di calore.