martedì 12 marzo 2019

SCARAPERLE - 10 - L’ALBA DEI GIGANTI



L’alba, due giganti della letteratura e un maestro di lettura.



“Baciandola come baciavo mia madre, a Combray, per calmare la mia angoscia, quasi credevo all’innocenza di Albertine o, almeno, non pensavo di continuo a quel che avevo scoperto, al suo vizio. Ma, adesso che ero solo, le stesse parole riecheggiavano di nuovo, come i rumori interni dell’orecchio che si sentono non appena qualcuno smette di parlarci. Adesso, per me, il suo vizio non era più oggetto di dubbio. La luce del sole che stava per spuntare, modificando le cose che mi circondavano, mi ridiede, come se m’avesse momentaneamente spostato rispetto ad essa, una consapevolezza ancora più crudele della mia sofferenza. Non avevo mai visto cominciare un mattino così bello e così doloroso. Pensando a tutti i paesaggi indifferenti che stavano per illuminarsi e che, ancora il giorno prima, m’avrebbero colmato solo del desiderio di visitarli, non potei trattenere un singhiozzo quando, in un gesto d’offertorio compiuto meccanicamente e che mi parve simboleggiare il cruento sacrificio d’ogni gioia che avrei dovuto fare ogni mattina sino alla fine della mia vita, rinnovando solennemente ad ogni aurora il rito del mio dolore quotidiano e del sangue della mia piaga, l’uovo d’oro del sole, come spinto dalla rottura d’equilibrio cui desse luogo, nel momento della coagulazione, un mutamento di densità, spinato di fiamme come nei quadri, lacerò d’un balzo il sipario dietro il quale, da qualche istante, lo si sentiva fremere, pronto a slanciarsi in scena, e ne cancellò con fiotti di luce la porpora misteriosa e rappresa."
Marcel Proust – Alla ricerca del tempo perduto - Sodoma e Gomorra


"Si comprese da tutti, al riscontrare delle tracce di sangue sullo spigolo del tavolino da notte, verso il letto, che il capo così ferito doveva avervi battuto violentemente; forse qualcuno doveva averla afferrata a due mani, pel collo, e averle sbattuto il capo contro lo spigolo del tavolino da notte, per terrorizzarla, o deliberato ad ucciderla. Terribile fu e permaneva a tutti l’aspetto di quel volto ingiuriato, ch’essi conoscevano così nobile e buono pur nel disfacimento della vecchiezza. Ora tumefatto, ferito. Inturpito da una cagione malvagia operante nella assurdità della notte; e complice la fiducia o la bontà stessa della signora. Questa catena di cause riconduceva il sistema dolce e alto della vita all’orrore dei sistemi subordinati, natura, sangue, materia: solitudine di visceri e di volti senza pensiero. Abbandono. «Lasciamola tranquilla», disse il dottore, «andate, uscite». Nella stanchezza senza soccorso in cui il povero volto si dovette raccogliere tumefatto, come in un estremo ricupero della sua dignità, parve a tutti di leggere la parola terribile della morte e la sovrana coscienza della impossibilità di dire: Io.
L’ausilio dell’arte medica, lenimento, pezzuole, dissimulò in parte l’orrore. Si udiva il residuo d’acqua e alcool dalle pezzuole strizzate ricadere gocciolando in una bacinella. E alle stecche delle persiane già l’alba. Il gallo, improvvisamente, la suscitò dai monti lontani, perentorio ed ignaro, come ogni volta. La invitava ad accedere e ad elencare i gelsi nella solitudine della campagna apparita."
Carlo Emilio Gadda – La cognizione del dolore