“......in quella sospensione del tempo, al risveglio, quando è impossibile la coordinazione, quando ogni frammento di realtà s'intromette arbitrariamente tra i propri termini, separatamente, rumorosamente, e il cervello cerca di afferrarli uno per uno mentre passano, sentendo che queste cose potrebbero essere comprese una per una e indipendentemente l'una dall'altra, se fosse possibile arrestarne il flusso prima che si trasformi in un torrente, e la mente s'inabissi nella totalità della coscienza.”
William Gaddis,“Le perizie.”
William Gaddis,“Le perizie.”
Appena alzato, nella grande cucina di una casa invasa dal caos di un dopo festa, mentre il sole sbuca sulla vetrata e sembra che per lo sforzo stia gocciolando sangue nel mare, ti possono venir in mente strane associazioni di idee.
Si accendono e spariscono come lampi dopo il
primo sorso di caffè, mentre cominci a toccare, in punta di dita, così, solo per riprendere con/tatto col
mondo, gli oggetti dispersi qui e là. Un modo per tentare di ricostruire la tua coscienza del mondo, di ritrovare un ordine
nel disordine del reale.
Vedi le macchie lasciate dai bicchieri. E con la stessa forma liquida e incerta,
l’immaginazione comincia a condensarsi attorno ad un ricordo, ad una rappresentazione. Si condensa
lentamente e lentamente si muove, come le piccole nuvole dell'alba, trascinate dalla brezza marina e destinate ad essere presto dissolte dal sole.
Piano piano la mente si popola di qualcosa che
sta a metà tra le figure della vita che si svolgeva poche ore fa nella stanza e
quelle che son venute dopo, nel sogno. E ancora, come sì è abituata a fare
nelle poche ore di sonno, produce pensieri con lo stesso meccanismo oscuro: prima nasconde misteriosi significati e
poi si diverte a scovarli.
Stamattina, mentre le tue mani come fossero
dotate di vita autonoma, spostano cose e puliscono piani di pietra e tavoli, lei si mette a giocare al gioco delle
somiglianze. E riesce a
sorprenderti, scovando strane assonanze tra certi oggetti e certi tipi umani.
Così, uomini e donne riaffiorano dalle stanze e dalle strade del passato, per il
fatto di pensarli come i Piatti oppure come la Carta assorbente o come le
Spugne che stai usando.
Dei Piatti sarebbe meglio non parlarne. Tempo
perso. Su di loro ogni cosa scivola via con l’acqua saponata, senza lasciare traccia.
Sangue, pastasciutta, sorrisi,
spezzatino, baci, verdure, pioggia, patate, lacrime, crema, insulti …. tutto ci
passa sopra e niente gliene resta.
I Piatti sono tipi che possono anche darti un
buon sapore, un sorriso dolce, una buona idea, un ottimo formaggio, una simpatica
serata, la bella forma di un pesce o di un corpo di donna o di una frase.
Si, ma in realtà, loro, i Piatti, non c’entrano niente.
Non sanno niente del gusto e
della bellezza che tu ci hai trovato
dentro. Sono neutri, asettici, portatori
sani del buono e del bello come dello sporco e del male. Portassero
un annuncio terribile o un risotto
troppo salato, i Piatti non ne hanno colpa. Si sono ritrovati tutto addosso, non ne sanno niente, non ne
possono cogliere il sapore, il senso.
Per come son fatti (materia, magari anche
di pregio, ma dura, liscia, refrattaria a comunicare), non riescono a farsi coinvolgere se
non grazie a quell'inevitabile
propagarsi per contatto del calore della vita. Se leggono, passano i libri come
alle terme si passano le acque. Se vanno al cinema, sparano il loro giudizio
già sulla porta e via nel dimenticatoio. Se ascoltano musica si sporcano solo
del ritornello. Montone o pollo, il mondo gli passa sopra e loro sembrano non avvertirne il peso.
Sono tanti, i Piatti, e sono tutti uguali, anche se a guardarli
sembrano diversissimi: il palestrato da romanzo di Siti che si è portato dietro ieri sera la mia amica di cinquant’anni, quella che si veste di plastica nera come Barbi;
la moglie servizievole dalla vocina gentile del mio collega in carriera; il
vicino di casa che è sempre d’accordo su tutto; la tipa che sta sempre zitta e
ti guarda con uno sguardo indifferente e lontano pensando chi saprà mai cosa. Sono uguali a questo piatto fondo in cui ho mangiato il risotto o a quello grande in cui tua moglie ha pulito il melone.
I Piatti, alla fine della festa,
mettono sempre tristezza.
La Carta assorbente, quella che stai passando sulla pietra di marmo nera, è
già tutt’altra storia. Ti parla di altri tipi. Gente che si imbeve, si colora,
si inzuppa, si trasforma, si dimena, si dà da fare.
La carta assorbente, lei
non è una che porta e basta: lei si dà, anima e corpo. Si lascia occupare,
invadere dalle cose che incontra. Che si tratti di una macchia di caffè o di una nuova polizza da vendere; di
uno schizzo di latte sulle piastrelle o di imparare a giocare a tennis; di un nuovo
ristorante o di un laghetto d’olio; di una nuova donna, di un nuovo uomo, di un
nuovo cantante oppure di una macchia di sugo, finché è una “primavolta”, una novità,
finché ci crede, finché si emoziona, finchè non è zuppa, esiste solo quello.
Le va anche riconosciuto che a modo suo quel che assorbe tenta di portarselo dietro.
Senonchè, tutto, qualsiasi cosa le passa dentro diventa subito una cosa sporca,
spazzatura, poveri resti destinati a marcire e a seccarsi in una sepolcrale discarica. Sono come quella commessa che parla con la sua amica dei suoi vecchi "grandi" amori, per chiedersi sempre alla fine (con amaro disprezzo di sè prima che di loro) "Ma come faceva a piacermi uno così? Che ci trovavo?". Come quello scrittore, retore dolente dell'infanzia. Come i passatisti della storia, che rimpiangono sempre uno che chiamano "Puzzone". La carta assorbente riduce la vita come il Montepulciano meraviglioso di ieri sera: una macchia di colore che fa pena.
No, dietro di sé, lasciano poco o niente di buono, i tipi-carta assorbente. Nessun idea di pulito, nessun buon odore, nessuna luce; al più un alone, una macchia, magari anche
indelebile.
Viene sempre sopravvalutata, la carta assorbente. Sembra voler lasciare dietro di sè ogni cosa raggiante
e invece non fa che seminare ombre e infelicità. Basta guardare il posacenere
di cristallo. Fosse per lei rimarrebbe nella nebbia del non sporco e non pulito, in una luce opaca per
sempre.
Mi fa pensare a certi amici per la pelle di una sera, a certi amori
destinati all'eternità di una stagione, a certi libri che sembravano capolavori
per un mese e poi sono svaniti per sempre "nella nebbia o nella
tappezzeria", su un ripiano nascosto
della libreria o della memoria, dal quale non usciranno mai più.
Il
fatto è che il tipo Assorbente ha poca capienza. Magari lo sa e magari se
ne fa anche una colpa. Che si tratti di idee o di sentimenti o che sia lo
schizzo di caffè, può contenere poca roba. Il suo entusiasmo iniziale, quando
cominci a farci una cosa insieme, illude sulle sue qualità. Con le sue partenze troppo brillanti brucia il poco che può davvero assorbire. Alla lunga, non regge mai alle aspettative che suscita. E ti
lascia sempre a metà.
Trattiene poco, si diceva. Una cosa curiosa è che spesso è uno che colleziona tutto: scontrini, ninnoli, cartoline, foto, vecchie lettere e vecchie ricevute. Sa che il suo punto debole è quello. Cerca di rimediare nel modo meno faticoso e più inutile.
In realtà il tipo come la carta assorbente le cose della vita marciscono
addosso. Vive e muore di piccole macchie, di tempo buttato in cose di cui non
afferrerà mai il senso: la cenere incontrata sulla pelle della poltrona, il
dolore di un abbandono, la macchia
di rossetto sullo specchio, la rabbia di un amico tradito, il lavoro che le
hanno dato da fare.
Il suo problema è solo questione di spessore, di capienza del cuore, come si dice (anche se il cuore invece c'entra niente).
Devi saperla usare, la carta assorbente, accontentarti della precaria comodità
che ti offre nell’immediato.
E’
una poveretta in fondo.
Se t’abbagli e la scambi per qualcos’altro, ti confezioni
con le tue stesse mani dei gran disastri.
Lei in fondo cosa c'entra? Lei è
così.
E’ una figura triste, ma uno dei segreti del suo buon uso è buttarla via appena
t'accorgi che è diventata inservibile. A trascinartela dietro rischi solo di
sporcare tutto. Anche il ricordo della sua iniziale fragile morbidezza, della
sua effimera bellezza.
La Spugna è diversa. La Spugna ha una sua consistenza, un suo volume. I tipi-spugna immagazzinano tutto quel che incontrano fino allo sfinimento e sanno come e dove trasmettere quel che hanno raccolto. Vedere il lavoro che sta facendo la Spugna sul mio tavolo, dove prima arrancava la carta assorbente, rende magnificamente l’idea.
Lo schizzo del caffè, un laghetto di latte, la macchia di sugo: lei non si limita ad assorbire. Lei si carica del problema, prima lo erode e poi lo cancella. Stessa cosa aveva fatto la sua compagna nel lavandino con i residui sporchi dei piatti.
Che si tratti di un giovane scrittore frequentatore di salotti parigini, di una donna innamorata o dell’amico di una vita, di una poetessa polacca, di un pittore olandese o di un avvocato di Asti, il tipo-Spugna ti cambia il modo in cui lo vedi, il mondo.
Persino il dolore di quella traccia d’olio
sulla paglia cinese riesce a lenire.
Piaceri, vecchie incrostazioni di zucchero, vecchie emozioni, strisce nere di carbone o di rimmel, nuovi dolori, confidenze, tracce di sangue, teorie, carezze, briciole di dolci e dolcezze, impressioni fugaci come l’impronta di una mano: il suo spazio interiore sembra senza fine. Anche quando gratta e scortica, ha il dono dell’accoglienza e della generosità.
Non si riempie, non mostra segni di esaurimento. Nasconde la fatica.
Se vuoi solo sfiorarla, senza farti coinvolgere più di tanto, te lo lascia fare, accogliente, con leggerezza, senza mostrare fastidio. Se ne hai bisogno si lascia stringere e ti risponde in un modo che alla fine ti libera dallo sporco della vita, ti illumina le cose.
Non si riempie, non mostra segni di esaurimento. Nasconde la fatica.
Se vuoi solo sfiorarla, senza farti coinvolgere più di tanto, te lo lascia fare, accogliente, con leggerezza, senza mostrare fastidio. Se ne hai bisogno si lascia stringere e ti risponde in un modo che alla fine ti libera dallo sporco della vita, ti illumina le cose.
La Spugna non spreca nulla e lascia andare dove si può, dove si vuole. Di ogni cosa però conserva l'essenza. Anche se, quando sembra che ti abbia dato tutto, che ha più niente da darti, invece, ha sempre un buon profumo con cui salutarti.
La riponi ogni volta con un senso di gratitudine, dopo aver pulito perbene la tua stanza e la tua mente. Sei pronto per lavarti.
Anche lì troverai una spugna. Sai che, alla fine di tutto, sarà di nuovo di lei che avrai bisogno per rimetterti a posto, pronto per il mondo.