I libri sull’assenza partono sempre con un
vantaggio. Ancor più se si tratta di una assenza che viene da una scomparsa
irreversibile, voluta e meditata (da Maiorana a Caffè, per citare i due casi
letterariamente più fascinosi - il secondo più del primo). Qui c’era nel
soggetto il bonus aggiuntivo di una storia al femminile con al centro la figura
di un padre che sceglie ad un certo punto di sparire. La Terranova ha scritto
un buon romanzo, ma poteva giocarselo meglio questo doppio vantaggio.
Intendiamoci, non scrive affatto male, anzi. Ha una
certa abilità nel dare una tonalità precisa alla narrazione; in questo caso
introspettiva, intima, un po’ dolente, ma senza eccesso di effetti emotivi, con
una sfumatura fredda che mi è piaciuta. Però fa scelte qualche volta che infastidiscono. Imprecisioni, sbavature di significato in certe espressioni ed
un che di improprio, di buttato lì nella scelta di certi aggettivi. Anche troppo ripetitiva nella sottolineatura del dolore.
Non è giusto definirlo un libro triste
(lacrimoso o stucchevole no di certo; e il rischio era alto). Certo, è un libro
che gira attorno ad un copione di depressione. Depresso il padre e erede della
sua depressione la figlia. La salvano la scrittura ed il marito: un personaggio in controluce, che agisce solo da lontano e nel
ricordo. Forse la figura migliore del romanzo. Poteva usarla meglio,
nell’ultima parte. Comunque, il racconto parallelo del matrimonio
funziona bene e c'è sostanza.
Buoni anche il realismo e l’efficacia con cui
rende i dialoghi silenziosi, fantasmatici tra madre e figlia (quelli gridati
funzionano meno), davanti ad un interlocutore muto che ha deciso di non esserci
più, ma che comunque in qualche maniera va e viene. C’è con l’assenza, appunto.
Si perde un po’ nel finale. La scelta fatta
sul personaggio di Nico sembra un inutile appesantimento. La scossa che
dovrebbe dare per preparare l’esito (anche quello un po’ banalmente teatrale e
insieme miserino nella sostanza), poteva essere diversa e cercata in modo meno
frettoloso e più congruente al racconto. Si gioca meglio il personaggio
dell’amica, di Sara, ma poteva anche lì lavorare di più sullo
spessore.
Si dice spesso dei romanzi che sono troppo lunghi (“ha
cento pagine di troppo”); qui forse ce ne volevano almeno cinquanta di più e un
po’ più di cura per essere un ottimo romanzo.