mercoledì 10 novembre 2021

La civiltà del malumore di Edgardo Bartoli





Il miglior libro letto nel '20 è questo qua: un libro su Roma e sulla storia degli ultimi cinquant’anni vista da Roma con gli occhi disincantati ed ironici di chi coltiva il gusto leggero ed ironico del “malumore”. Malumore verso un mondo, un’Italia ed una città che ama e che non gli piace. Un libro prezioso.

Roma nell’immaginario degli abruzzesi è stato da sempre quello che lo zio simpatico e un po’ vitellone é stato per gli adolescenti delle famiglie novecentesche. Andarlo a trovare era sempre una festa e andare a  a passare le vacanze  da lui una epifania. Poi naturalmente nella realtà, le cose vanno sempre un po’ diversamente, ma non troppo in fondo. Basta leggere gli aforismi di Flaiano su Roma per capire cosa vuol dire.

E’ proprio Flaiano d’altronde il prototipo di quella che Bartoli definisce come portatore della  “fugace civiltà della dissidenza morale che abbiamo chiamato malumore”. “Quella vivace forma di malumore – che chiameremo “civile”. Una minoranza  che fu antifascista senza essere comunista, che fu colta senza cadere in fedi e ideologie, che fu malinconica senza essere triste, che fu cosmopolita viaggiando poco o niente. Una orgogliosa minoranza di “marziani a Roma” che si raccolse attorno al Mondo di Pannunzio e che si tenne lontano da ogni appartenenza.“Flaiano. Senza dubbio, quello fu, come s’è detto, il modello del più vitale e raffinato malumore del quale si conservi memoria” .  E lui nutrì per Roma una scettica, disincantata, irriducibile affezione, nascosta dietro uno sconforto colorato di ironia. La sua relazione con la città, come  l’amicizia nella definizione felliniana, si é sempre “fondata su una sana sfiducia reciproca”.

È un vademecum della romanità nelle sue declinazioni: quella borghese più o meno colta, quella popolare più o meno coatta, quella del potere statale e curiale fondato sull’aggiustamose. E ha l’acume e il coraggio di individuare con precisione con un decennio di anticipo quella che da Roma emerge come la vera nuova classe nazionale (ma non è solo un fatto italiano) nell’età della globalizzazione. E non c’é dubbio che sia la plebe la nuova classe che coltiva l’illusione disperata e velleitaria di diventare egemone.  Si raccoglie in prevalenza nel leghismo e nel grillismo, ma che in realtà permea tutta la classe politica. Sopratutto permea tutti i luoghi virtuali e reali dove le persone diventano “la gente”. E gli italiani, forse unici in Europa, sono tornati ad essere plebe senza essere riusciti mai a diventare cittadini fino in fondo, salvo che in qualche prezioso spicchio della propria storia, subito dimenticato.

Di questa evoluzione/involuzione senza vero cambiamento l'approdo di oggi sembra essere un ritorno alla Suburra, alla sottocultura della plebe. Solo che a Roma l’essere plebe assume, insieme con certe sguaiataggini, dei risvolti di saggezza, di bellezza e di umoristica intelligenza che, per dire, nelle valli bergamasche, ma anche altrove, da sud a nord, non riusciremo mai neppure ad immaginare. Tanto per capirci, ad un Bossi che farfugliava feroce contro “Roma ladrona”, il plebeo Storace una volta rispose: “A Umbé stacce, quando  i padani stavano ancora sulle palafitte, noi eravamo già froci”. 

È anche una catalogazione delle categorie costitutive della Grande Bellezza romana. Con dettaglio sulle controindicazioni della bellezza, con quella celeberrima paginetta di Somerset Waugham.

 

 

Il film di Sorrentino sembra ispirarsi a questo libro. Perché quella romana  è bellezza  miracolosamente complicata: un fatto di pietre, colori (la luce, soprattutto) e umori (per non parlare di odori e sapori). E si porta dietro un codazzo corposo di controindicazioni, di conseguenze molto nocive per chi ci vive e per chi ci va. Resta comunque una bellezza unica, una Grande Bellezza appunto, esclusiva, frutto di una combinazione irripetibile di clima, storia e meticciamenti genetici e culturali globali ante litteram. Un patrimonio che sta lì, confidenzialmente a portata di mano: una città eterna in cui per l’appunto il passato non è passato e il futuro non esiste.