giovedì 26 dicembre 2019

Il colibrì di Sandro Veronesi


Questo romanzo è un tacchino alla canzanese. Ottimo piatto della cucina teramana. 
Si cuoce il tacchino dopo averlo disossato; poi si mette tutto in frigo in modo da far solidificare il brodo e far formare la gelatina. Qui c’è tutto quel che bisogna sapere 

E’ buonissimo (anche per chi il tacchino non fa impazzire per niente, fatto così può acquistare un senso). E anche il romanzo è buono. Il segreto, ovviamente, in tutti e due i casi sta nel brodo. Lì sì vede la mano del cuoco. E Veronesi è bravo. Cucina anche lui una materia prima che non a tutti piace (la saga famigliare), però la prosa è ottima, la struttura originale complicata al punto giusto (il racconto va rimontato dal lettore come un mobile dell’ikea), i personaggi sono disegnati benissimo. La voce narrante di Veronesi ha sempre un timbro narrativo di qualità e in questo libro è a uno dei suoi massimi. 
Poi la sua faccia di scrittore ha i suoi connotati, che possono piacere o anche no. Qui a me per esempio risulta particolarmente fastidioso il vizietto di fare lezioncine morali che lo accomuna a tutti gli intellettuali di sinistra da salotto romano. E anche quello di fare il pavone con le cose che ha letto, che sa, che ama (i ringraziamenti mettono i brividi: come abbracciare una scatola di polistirolo). Ma questo nell’economia complessiva del libro alla fine è marginale.
Piuttosto leggendo le cose mirabolanti che ne dicono, viene uno scrupolo. Da cui questo commento e il tacchino. Perché un difetto grosso questo libro ce l'ha. E' vero che andando avanti con gli anni il "come lo scrivi"  diventa più importante di "cosa scrivi",  però nel tacchino alla canzanese ci vuole la giusta misura di gelatina e di carne. Troppa dell’una o troppo dell’altro rovina il gusto. Tutto il romanzo senza i pregi e le originalità di stile e di struttura sarebbe una modesta saga famigliare un po’ pompata e enfatizzata, in cui la sostanza originale sta (o starebbe) tutta nel titolo. Il colibrì è un uccello che ha la capacità di restare fermo in volo, spende energie anziché per volare, per stare  immobile. Così è il protagonista, secondo l’autore. Gli cambia  e gli crolla il mondo attorno e lui resta fermo a presidiare i suoi ricordi, l’amore impossibile della sua vita, la sua casa e quel che c’è rimasto dentro dopo alcuni terremoti terrificanti. 

Francamente questa cosa del colibrì non è che salti subito agli occhi con tutta questa evidenza e comunque nella sostanza è poca roba. La sensazione che mancasse un po' la sostanza a questo romanzo c’è ed è forte, alla fine. A conti fatti, resta una storia di famiglia molto salottiera, scritta bene e in modo originale.  E basta.  Un tacchino alla canzanese con troppa gelatina e non abbastanza ciccia.