lunedì 23 settembre 2019

Turbolenza di David Szalay


Dodici racconti in dodici tappe. Un giro del mondo che parte da Londra, passa per Dakar, San Paolo, Seattle, Hong Kong, Saigon, Delhi, Kochi, Doha, Budapest, per tornare a Londra. Come lo splendido “Tutto quello che è un uomo”, una brevissima narrazione ad incastri. Come un Lego, come in una staffetta di personaggi e storie che si si incontrano e si incatenano lungo un filo comune. Un romanzo-mosaico. Al pari dell’altro, bello e originale anche questo.

La cosa narrativamente migliore, all’inizio di ogni racconto, è la sensazione di  spaesamento. Chi parla adesso? In quale parte del mondo siamo? E, solo dopo,  le domanda di ogni lettura: che succede e che significa?
Poi affiorano i collegamenti, si illumina  il filo rosso che lega i racconti. Szalay ha una grande misura narrativa, una grande abilità affabulatoria.

Usa benissimo nel libro i nuovi oggetti della nostra quotidianità: gli strumenti della comunicazione globale, i nuovi metodi di trasporto, i cellulari intelligenti, l’informatica mobile e diffusa, gli sms, le mail, i canali social, tanti aerei. Ed è proprio questo che fa risaltare meglio non solo  come niente aiuti a superare  l’isolamento nell’individualità, ma piuttosto la cristallifichi.
La socializzazione facile è una socializzazione frammentata, produce una non comunità di individui isolati che si incrociano a intermittenza, a singhiozzo. Sentimenti a singhiozzo, dolori a singhiozzo, amori a singhiozzo. Un alfabeto morse di punti di contatto brevi e linee lunghe di silenzio e solitudine che si  intrecciano senza che nessuno di quelli che le percorrono ne abbia consapevolezza.

Un romanzo in cui tutti sono in movimento continuo. Fa pensare mentre si legge a certe rappresentazioni animate della struttura fisica della materia; con questa miriade di particelle gravitanti nel vuoto che si appaiano, si attraggono in orbite gravitazionali che poi abbandonano, per  scontrarsi, decadere e sparire. La facilità del nostro tempo è apparente; piuttosto è velocità, una complessità vorticosa. Nel libro viene resa benissimo. Tutti vivono sballottati in una turbolenza intermittente, disorganica, che fa muovere senza però che nessuno abbia mai la sensazione di gestire davvero il movimento, di poterne decidere e  controllare la direzione. Di nuovo forse c’è che, più di quanto sia mai accaduto nel passato, adesso, con la comunicazione globale facile, c’è la percezione delle dimensioni minuscole del pianeta in cui viviamo.

In questo frullatore che non si ferma mai, c’è qualcosa di solido che non muta. E affiora nel romanzo ad ogni pagina, ad ogni giro di giostra lungo il pianeta. E’ l’incombere dei mali di sempre: la paura di essere abbandonati e della solitudine, la malattia, la vecchiaia e la fine per ciascuno e per tutti. Con la velocità del nostro mondo che si applica anche all’oblio.

La conclusione è coerente con questo quadro di contrasti. A fronte della complessità vorticosa,  di tanti cambiamenti nella strumentazione, nei costumi e nelle abitudini della vita, alla fine del suo lungo giro che parte da Londra e a Londra ritorna, il libro si chiude sulla fase forse finale o forse no della vita di un uomo malato, assistito da una figlia. Uno scenario antichissimo, che fa riemergere la sostanza della condizione umana, nella sua banale immutabilità. Szalay ne  riassume il senso con una piccola frase  di  John Kennedy, scritta “sul muro di fianco all’interruttore della luce: «Perché, in ultima analisi, ciò che ci unisce è che abitiamo tutti questo piccolo pianeta, respiriamo tutti la stessa aria, abbiamo tutti a cuore il futuro dei nostri figli. E siamo tutti mortali»