Dodici racconti in dodici tappe. Un giro del mondo che parte da Londra, passa per Dakar, San Paolo, Seattle, Hong Kong, Saigon, Delhi, Kochi, Doha, Budapest, per tornare a Londra. Come lo splendido “Tutto quello che è un uomo”, una brevissima narrazione
ad incastri. Come un Lego, come in una staffetta di personaggi e storie che si si incontrano e si incatenano lungo
un filo comune. Un romanzo-mosaico. Al pari dell’altro,
bello e originale anche questo.
La cosa narrativamente migliore, all’inizio di ogni racconto,
è la sensazione di spaesamento. Chi
parla adesso? In quale parte del mondo siamo? E, solo dopo, le domanda di ogni lettura: che succede e che
significa?
Poi affiorano i collegamenti, si illumina il filo rosso che lega i racconti. Szalay ha
una grande misura narrativa, una grande abilità affabulatoria.
Usa benissimo nel libro i nuovi oggetti della nostra quotidianità:
gli strumenti della comunicazione globale, i nuovi metodi di trasporto, i cellulari
intelligenti, l’informatica mobile e diffusa, gli sms, le mail, i canali social,
tanti aerei. Ed è proprio questo che fa risaltare meglio non solo come niente aiuti a superare l’isolamento nell’individualità, ma piuttosto
la cristallifichi.
La socializzazione facile è una socializzazione frammentata,
produce una non comunità di individui isolati che si incrociano a
intermittenza, a singhiozzo. Sentimenti a singhiozzo, dolori a singhiozzo,
amori a singhiozzo. Un alfabeto morse di punti di contatto brevi e linee lunghe
di silenzio e solitudine che si
intrecciano senza che nessuno di quelli che le percorrono ne abbia
consapevolezza.
Un romanzo in cui tutti sono in movimento continuo. Fa
pensare mentre si legge a certe rappresentazioni animate della struttura fisica della
materia; con questa miriade di particelle gravitanti nel vuoto che si appaiano,
si attraggono in orbite gravitazionali che poi abbandonano, per scontrarsi, decadere e sparire. La facilità del
nostro tempo è apparente; piuttosto è velocità, una complessità vorticosa.
Nel libro viene resa benissimo. Tutti vivono sballottati in una turbolenza
intermittente, disorganica, che fa muovere senza però che nessuno abbia mai la
sensazione di gestire davvero il movimento, di poterne decidere e controllare la direzione. Di nuovo forse c’è
che, più di quanto sia mai accaduto nel passato, adesso, con la comunicazione
globale facile, c’è la percezione delle dimensioni minuscole del pianeta in cui
viviamo.
In questo frullatore che non si ferma mai, c’è qualcosa di
solido che non muta. E affiora nel romanzo ad ogni pagina, ad ogni giro di
giostra lungo il pianeta. E’ l’incombere dei mali di sempre: la paura di essere
abbandonati e della solitudine, la malattia, la vecchiaia e la fine per
ciascuno e per tutti. Con la velocità del nostro mondo che si applica anche all’oblio.
La conclusione è coerente con questo quadro di contrasti. A fronte della complessità vorticosa, di tanti cambiamenti nella strumentazione, nei
costumi e nelle abitudini della vita, alla fine del suo lungo giro che parte da
Londra e a Londra ritorna, il libro si chiude sulla fase forse finale o forse no della vita di un
uomo malato, assistito da una figlia. Uno scenario antichissimo, che fa riemergere la sostanza della condizione umana, nella sua banale
immutabilità. Szalay ne riassume il senso con una piccola frase di John Kennedy, scritta “sul muro di fianco all’interruttore della luce: «Perché, in ultima
analisi, ciò che ci unisce è che abitiamo tutti questo piccolo pianeta,
respiriamo tutti la stessa aria, abbiamo tutti a cuore il futuro dei nostri
figli. E siamo tutti mortali»