Rilettura dopo nove anni. Stessa meraviglia e nuove sfumature di senso. Prendete l’ultimo
dei cinque racconti che hanno lo stesso titolo e danno il titolo alla raccolta. E' una delle cose più audaci concettualmente e lancinanti che si possano leggere e per una lettrice sarà senz'altro meglio/peggio. E' formidabile nella tensione
narrativa, nello scavo psicologico, nella energia emotiva che lo anima. In
misura diversa questo vale per tutti i testi della raccolta. Inclassificabili,
di genio assoluto. Un campionario di situazioni esemplari "della
porositá di certi confini"
tra il commendevole ed il riprovevole, tra cause/intenzioni e
risultati/effetti, tra il vissuto e il consapevole, tra la più compassionevole
empatia e la più impietosa crudeltà.
E’ per questo che è una delle cose più famose e anche più belle di DFW. Testi di avanguardia. Difficili anche, certo. Perché buoni solo
per lettori adulti abituati ad usare la lettura per studiarsi dentro; e per tentare di
decifrare il rapporto che hanno davvero con l'Altro, senza risparmiarsi niente. Roba sofisticata nella forma e nel contenuto, scritta con indifesa e coraggiosa
impudicizia.
Il racconto titolato "L'ottetto", per esempio, in cui si esercita su sé stesso scrittore,
mentre cade facendo l'esercizio della scrittura: è come una webcam che registra live l'allenamento dell'acrobata. Ed è anche una
critica lucidissima di quella corrente post-modernista che della
meta-letteratura aveva fatto un connotato di auto-riconoscimento.
Tra
tutti i suoi scritti questi raccontini sono forse quelli che consentono di stabilire il contatto più ravvicinato con DFW.
Il
protagonista ridotto a minimo comun denominatore che ne viene fuori forse è il narciso nudo che si e ti denuda. Che si contorce e ti contorce per
strizzare tutti i coloranti con cui cerchiamo di farci belli o di giustificarci
davanti a noi stessi. Come lavare panni sporchi in un lavatoio pubblico,
facendolo diventare un esercizio da fachiro. La
visione del padre in "Sul letto di morte..", della depressione in
"La persona depressa..", dei rapporti coniugali in "Mondo
adulto", della madre in "Il suicidio..." sono di un realismo
così lucidamente allucinato, da lasciare semplicemente senza fiato.
E
c'è proprio bisogno per il lettore di tirare spesso il fiato, appunto. A colpi
di sospironi.
Poi ha
ragione anche Zadie Smith, quando dice in prefazione che questo libro è un dono. E non si tratta di una metafora. E’ proprio
concepito come un regalo. Forse è la raccolta di DFW dove si capisce meglio (a
parte Infinite Jest) la molla che lo portava a scrivere, quella che secondo lui
era la ragione per cui esiste la letteratura, il raccontarsi le storie. E cioè
rompere la solitudine che ci viene dal semplice fatto di essere individui: un
fascio di materia, separato dagli altri e organizzato in una forma che viene
definita “essere umano”.
La
letteratura può rompere questa separatezza fisica e mettere in comunicazione. Lo fa raccontandoci il modo per ciascuno diverso di vedere il mondo (nel senso anche
fisico,
cromatico
e non solo metaforico, mentale) e di sentire e di sentirci e di essere
consapevoli del mondo e del nostro esistere. Funzione questa che di quel fascio di materia chiamato
essere umano è la peculiarità esclusiva più importante.
![]() |
David Foster Wallace |
DFW
diceva proprio questo; che “la letteratura è un antidoto contro la
solitudine” (ed è una definizione,
nella stessa esatta misura, paradossale e vera: ci si isola per leggere e
leggendo si rompe la solitudine). In questi raccontini attorno alle
configurazioni mostruose che può assumere l’uomo, un altro uomo profondamente
buono, compassionevole, ma anche inesorabilmente preciso ed intelligente regala
a chi lo legge un modo per non sentirsi separato dagli altri; isolato nel
sentirsi (come a tutti capita in una qualche misura variabile per tipi e per
occasioni) o magari essere davvero schifoso, mostruoso, colpevole. Perché “È questa la vera malvagità, non sapere
nemmeno che si è malvagi, no?”
“…vedevo nella sua
faccia gemella quello che ogni monello imbrattato di leccalecca e tenuto per
mano deve vedere negli specchi deformanti al luna park – l’irregolarità volgare
e spietata, la distorsione in cui c’è, minuscolo, al centro, qualcosa di
crudelmente vero….in uno specchio senza il quale non potevo conoscermi né
sentirmi. No mai più.”