lunedì 16 settembre 2019

Brevi interviste con uomini schifosi di David Foster Wallace




Rilettura dopo nove anni. Stessa meraviglia e nuove sfumature di senso. Prendete l’ultimo dei cinque racconti che hanno lo stesso titolo e danno il titolo alla raccolta. E' una delle cose più audaci concettualmente e lancinanti che si possano leggere e per una lettrice sarà senz'altro meglio/peggio. E' formidabile nella tensione narrativa, nello scavo psicologico, nella energia emotiva che lo anima. In misura diversa questo vale per tutti i testi della raccolta. Inclassificabili, di genio assoluto. Un campionario di situazioni esemplari "della porositá di certi confini" tra il commendevole ed il riprovevole, tra cause/intenzioni e risultati/effetti, tra il vissuto e il consapevole, tra la più compassionevole empatia e la più impietosa crudeltà. 


E’ per questo che è una delle cose più famose e anche più belle di DFW. Testi di avanguardia. Difficili anche, certo. Perché buoni solo per lettori adulti  abituati ad usare la lettura  per studiarsi dentro; e per tentare di decifrare il rapporto che hanno davvero con l'Altro, senza risparmiarsi niente. Roba sofisticata nella forma e nel contenuto, scritta con indifesa e coraggiosa impudicizia. 
Il racconto titolato "L'ottetto", per esempio, in cui si esercita su  stesso scrittore, mentre cade facendo l'esercizio della scrittura: è come una webcam che registra live l'allenamento dell'acrobata. Ed è anche una critica lucidissima di quella corrente post-modernista che della meta-letteratura aveva fatto un connotato di auto-riconoscimento.
Tra tutti i suoi scritti questi raccontini sono forse quelli che consentono di stabilire il contatto più ravvicinato con DFW. 

Il protagonista ridotto a minimo comun denominatore che ne viene fuori forse è  il narciso nudo che si e ti  denuda. Che si contorce e ti contorce per strizzare tutti i coloranti con cui cerchiamo di farci belli o di giustificarci davanti a noi stessi. Come lavare panni sporchi in un lavatoio pubblico, facendolo diventare un esercizio da fachiro. La visione del padre in "Sul letto di morte..", della depressione in "La persona depressa..", dei rapporti coniugali in "Mondo adulto", della madre in "Il suicidio..." sono di un realismo così lucidamente allucinato, da lasciare semplicemente senza fiato. 
E c'è proprio bisogno per il lettore di tirare spesso il fiato, appunto. A colpi di sospironi. 

Poi ha ragione anche Zadie Smith, quando dice in prefazione che questo libro è un dono. E non si tratta di una metafora. E’ proprio concepito come un regalo. Forse è la raccolta di DFW dove si capisce meglio (a parte Infinite Jest) la molla che lo portava a scrivere, quella che secondo lui era la ragione per cui esiste la letteratura, il raccontarsi le storie. E cioè rompere la solitudine che ci viene dal semplice fatto di essere individui: un fascio di materia, separato dagli altri e organizzato in una forma che viene definita “essere umano”.
La letteratura può rompere questa separatezza fisica e mettere in comunicazione. Lo fa raccontandoci il modo per ciascuno diverso di vedere il mondo (nel senso anche fisico,
cromatico e non solo metaforico, mentale) e di sentire e di sentirci e di essere consapevoli del mondo e del nostro esistere. Funzione  questa che di quel fascio di materia chiamato essere umano è la peculiarità esclusiva più importante.

David Foster Wallace
DFW diceva proprio questo;  che “la letteratura è un antidoto contro la solitudine” (ed è una  definizione, nella stessa esatta misura, paradossale e vera: ci si isola per leggere e leggendo si rompe la solitudine). In questi raccontini attorno alle configurazioni mostruose che può assumere l’uomo, un altro uomo profondamente buono, compassionevole, ma anche inesorabilmente preciso ed intelligente regala a chi lo legge un modo per non sentirsi separato dagli altri; isolato nel sentirsi (come a tutti capita in una qualche misura variabile per tipi e per occasioni) o magari essere davvero schifoso, mostruoso, colpevole. Perché “È questa la vera malvagità, non sapere nemmeno che si è malvagi, no?”

“…vedevo nella sua faccia gemella quello che ogni monello imbrattato di leccalecca e tenuto per mano deve vedere negli specchi deformanti al luna park – l’irregolarità volgare e spietata, la distorsione in cui c’è, minuscolo, al centro, qualcosa di crudelmente vero….in uno specchio senza il quale non potevo conoscermi né sentirmi. No mai più.”