Atmosfera e
scenari, per capirci, come in un film di Olmi. O come in Novecento di
Bertolucci. La questione sociale riportata alla preistoria contadina, tra
miseria e ribellione; tra superstizioni e un cristianesimo para-rivoluzionario
usato per tentare di difendersi dalle
due oppressioni secolari della storia d’Italia: quella degli invasori e quella
della Chiesa (siamo in piena età dell'Inquisizione). Proiettata sull’oggi, fa
ritornare a galla il tema della giustizia, che è nel suo scheletro portante,
oggi come allora, prima di tutto giustizia sociale.
Protagonisti i vecchi poveri, i contadini del
nord che solo nei vestiti e nelle abitudini, oltre che nella lingua e nel colore della pelle, sono diversi da
quelli del sud e dai nuovi poveri di oggi.
Allo stesso modo, la questione femminile viene riproposta nella sua
embrionale, preistorica sostanza. E nella sua centralità. Un allargamento degli
orizzonti storici verso un passato così lontano da rendere impressionante
l’evidenza di come, appunto, la sostanza dei problemi non sia poi così tanto
cambiata.
Quella che è cambiata piuttosto e non è poca
cosa è la vita quotidiana e il progresso delle conoscenze e delle tecniche al
servizio della vita quotidiana: dall’igiene, all’alimentazione, alla sanità,
all’istruzione. Facile pensare, leggendolo, che nonostante tutti i problemi che
abbiamo, viviamo di gran lunga, almeno da questo punto di vista e in questo
pezzo di mondo, nella migliore delle epoche, da qualche migliaio di anni a
questa parte.
Letterariamente due cose di pregio: la prima è
la lingua impastata nei dialetti padani, tra Lombardia e Piemonte, e poi
condita di neologismi e trovate. La leggibilità non ne perde. Anzi, il libro ne
acquista in vivacità. E il realismo vien fuori colorato di suggestioni. La
seconda è la struttura a mosaico, con un alternarsi degli scenari narrativi
attraverso il racconto della storia della banda dei ribelli “pitocchi” e una
ricostruzione a posteriori di una sopravvissuta. Il finale è tra i migliori
letti negli ultimi tempi.