James Purdy |
Nella sua foto da vecchio ha lo sguardo vigile e spaurito,
diffidente. Chi gliel’ha scattata e lo intervista definisce il suo sguardo “l’amalgama di fragilità e passione
di cui è vittima”. Somiglia all’ultimo Gadda. Ma, a parte certe ispidezze ed ossessioni, far confronti è un modo per andare fuori
strada. Uno dei tanti, con James Purdy. Finchè non si capisce che le somiglianze con lui non funzionano. E quindi
neanche il setaccio delle categorie, per vagliarlo e classificarlo. Ha ragione
Claudio Gorlier nella prefazione di Rose e cenere: “Purdy somiglia solo a se stesso”.
A indagarci attorno più leggi, più scavi e
più incuriosisce. Un personaggio anomalo, contraddittorio su tanti aspetti, interessante
come pochi altri. Veniva da quella che chiamiamo sempre “America profonda”,
quella bianca, rurale, che pensa di
pancia e riflette sempre il sentimento dominante tra gli americani (solo due volte nella storia delle elezioni in Ohio non ha vinto il candidato che poi sarebbe diventato Presidente). Veniva dal Midwest, ma è vissuto, quasi tutta la vita a Brooklyn, che invece è il pezzo
d’America più cosmopolita, cerebrale, intellettuale e salottiero.
Ha fatto lo scrittore di professione, ma i salotti non li frequentava; non ha mai inseguito la mondanità e neppure il successo. I critici poi era gente da cui difendersi a pugni. Eppure molti della ventina di romanzi che ha scritto sono stati accolti come “folgoranti”. Lui sembrava vantarsi di più dei tanti rifiuti a pubblicare che aveva ricevuto agli inizi. Uno dei suoi romanzi, Malcom, ebbe gran fortuna nella trasposizione teatrale. Però nel complesso è rimasto un autore di culto tra gli scrittori, ma di cui le case editrici italiane non ristampano più niente da anni. Per trovare buona parte e non tutti i suoi romanzi bisogna andare su Ebay e benedire qualcuna delle tante piccole librerie di provincia che custodiscono tesori invenduti e che ora li mettono in rete per smaltirli a prezzi commoventi. Più facile trovare i suoi racconti, che vengono ritenuti da molti la sua cosa migliore.
Fu
profondamente americano nei temi, nelle ambientazioni, nello stile eppure fu
più apprezzato dal lettore medio europeo (e italiano in particolare) che da
quello statunitense. Verso l’uno e verso l’altro restò nella stessa misura
sostanzialmente indifferente e scettico; non aveva molto rispetto dei gusti né degli
uni né degli altri. Non credeva nel suo successo e in qualche misura non lo
voleva, perché non si sentiva uno scrittore da consumo di massa, in grado di
incontrare la sensibilità e il gusto di moltitudini di lettori. «Ho
un’audience sotterranea. Lettori molto giovani o molto vecchi… Non sono in
molti a ricordarsi di me. A volte mi fa piacere.» Forse gli faceva piacere proprio il rimanere
nascosto ed il fatto di rivolgersi a pochi.
Non ne soffriva, però se ne lamentava. Con l’atteggiamento di chi sotto sotto pensa
“peggio per voi”. Un lamentoso, sottaciuto compiacimento, tenuto caldo dal
disprezzo: «No. Io sono un reietto. Mi vergogno persino di avere il televisore e
di accenderlo di tanto in tanto. È una specie di buco di culo sanguinante che
sparge sudiciume avvelenandoci tutti, con dei cretini che parlano a voce alta
un inglese da analfabeti.»
La sua prosa, se è
sofisticata ed elitaria, lo è (altra stranezza) per la sua
elegantissima semplicità. E l’eleganza
fa contrasto con i contesti e le storie che descrive: di provincia o di microcosmi
metropolitani marginali (intellettuali falliti oppure neri o vecchi e soprattutto omosessuali).
Come dire aristocratica raffinatezza letteraria per raccontare la
cupa faccia in ombra del sogno americano, con i suoi miti del successo,
dell’amore, della libertà di realizzare desideri. I suoi personaggi invece sono incapaci di accettare l'idea di poter amare ed essere amati e questo li relega ai margini di tutto, vocati al fallimento ed alla sconfitta.
Per andare avanti nel
gioco delle anomalie e dei contrasti, Purdy è essenziale senza essere minimalista; in
realtà non mostra soltanto, ma racconta, analizza, scava. I suoi personaggi sono complessi, a più dimensioni e a più facce. Le sue
descrizioni hanno una loro carica di suggestione sia lirica che metaforica; le
sue storie sono piene di ossessioni, di mal di vivere, di fragilità e di
consapevolezza della sofferenza. La voce narrante trasmette una sottesa, pudica
empatia, una compassionevole condivisione, ma è anche crudele, dura, percorsa da una strana forma di cinismo: il cinismo degli sconfitti, quella da risata dell’impiccato.
Come tutta la migliore letteratura Purdy pratica e
custodisce nei suoi libri quella che è fin dalle origini, dal Don Chisciotte, la
peculiarità del romanzo come forma di comunicazione e cioè l’ambiguità. Il
romanzo per essere un grande romanzo non deve esprimere verità, deve lasciare
spazio all’indefinito, all’ambiguo implicito in ogni realtà, in ogni
personaggio e in ogni storia; e lasciare
a chi legge il compito di porsi davanti a questa ambiguità. Non deve asserire,
dirimere, assolvere o condannare. Chi ha
una verità da trasmettere scriva un saggio, non un romanzo. Al lettore di
narrativa va lasciato lo spazio e la libertà per fare l’esercizio di interpretare ed
immaginare, di schierarsi o no e da che parte, di come inquadrare il personaggio, la situazione, il senso che
ha, se ne ha uno. Purdy è da questo punto di vista un grande romanziere.
C’entra, si, “il
volto triste dell’America” (alla
Anderson o alla Yates, per capirci), ma non bisogna farsi fuorviare da
questa chiave. È vero che nella genesi stessa degli Stati Uniti, segnata dai rudi costumi del nomadismo verso la
frontiera, la compressione fino alla
demonizzazione della sfera dei sentimenti (una sorta di analfabetismo
emozionale), è stata qualcosa che ha inciso profondamente. E insieme al
puritanesimo anglosassone ha poi sorretto l’etica capitalistica del lavoro,
della competizione e dell’individualismo elevato a religione, fino ad arrivare
al managerialismo suicida di oggi. Il carico di sofferenze che questa roba ha prodotto scalando nelle generazioni è spaventoso e la
letteratura americana l’ha scavato a fondo.
Ma questo romanzo, per tematica e sensibilità, va al di là
della dimensione americana. Perché è
soprattutto un romanzo sui non amati e su quelli che comunque non si
riconoscono il diritto di amare. Al suo centro c’è il grande tema dell’amore vissuto
come una malattia; come un inganno in cui non ci si riconosce il diritto di
cadere; come una richiesta destinata a rimanere inevasa; come un bisogno
ineliminabile e intollerabile, che denuncia
una debolezza inconfessabile e può portare solo alla vergogna di un rifiuto.
Altro rischio da evitare è prenderlo come un libro sulla
pena di vivere l’omosessualità. E rinchiuderlo in quella tematica li. Al
contrario il fatto che il contesto
specifico sia quello dell’amore omosessuale aggiunge ulteriormente universalità
al modo in cui il tema dell’amore malato viene sviluppato. È una cosa
apparentemente forse paradossale; in realtà è proprio così ed è forse la più notevole qualità del
soggetto del romanzo. D’altronde, si capisce il perché. Nell’amore omosessuale la differenza di genere non c’è,
non c’è la biologica diversità tra uomo e donna ad inquinare la corretta
declinazione di un tema che in effetti prescinde il genere e che riguarda
qualcosa di profondamente rannicchiato
nel fondo di un certo tipo di mente umana, al di là della differenza di sesso.
Anzi il contesto omosessuale (in
un’epoca in cui più di oggi era un tabù innominabile e rabbiosamente
perseguitato) fa emergere meglio la sostanza e le radici appunto universali
della incapacità di sentirsi nel diritto di chiedere e ricevere amore; della
impossibilità di dare e ricevere comunicazioni con l’altro nella maniera più
profonda e completa che sia a disposizione dell’essere umano e cioè con la
mente e con il corpo insieme.
Quando si parla di questo tema è sempre centrale il ruolo delle
madri. In questo romanzo sono figure dolenti e sconfitte, forse più dei loro
figli. Sono vissute da loro come marziane da cui fuggire, a cui bisogna
nascondere la verità più gelosamente che a tutti gli altri. Chiedono cose
incomprensibili, motivate più dalla loro paura, dal loro bisogno di riconoscimento e dalla
ricerca di appagamento delle loro esigenze affettive e sociali, che da quelle
di accompagnare e custodire le fragilità dei loro figli.
Azzeccatissima infine la scelta di individuare
nel contesto militare, nella logica del comandare-obbedire che sfocia nella
violenza brutale e letale, lo sbocco finale di tutto il dolore che il rigetto
dell’amore comporta. Se c’è un ambiente estremo ed aberrante sotto quell’aspetto è
proprio quello militare.
Un romanzo molto forte, anche vivace e brillante nella prima
parte, ma è la seconda, quella più dura, la più bella. In tutte e due domina
quel personaggio straordinario che è
Eustace Chisholm.
Il Nipote è meno potente di Rose e cenere, più convenzionale per scenario e soggetto; ma proprio questo fa risaltare ancor più l’eleganza sommessa dello stile, la capacità straordinaria di restituire le tonalità e le atmosfere di ambienti e dialoghi. Una prosa di grande pulizia stilistica, senza una sbavatura. La sensazione è che incanterebbe anche descrivendo il nulla. Quegli scrittori da leggere come se lo ascoltassi mentre ci passeggi a fianco piano piano su un viale alberato.
Un libro che ha al centro l'assenza e l'impossibilità di conoscere davvero l’altro. Neppure la scrittura riesce ad aiutare. Chi ci prova a tentare di raccontare e conoscere è costretto a rinunciare.
Come Rose e Cenere è un romanzo sulla impossibilità patologica di vivere serenamente l’affetto, l’amore. Di darlo e di consentirsi di riceverlo. Anche qui la condizione omosessuale si eleva a paradigma universale. E anche qui il mondo militare, la guerra è il simbolo mostruoso di qualcosa che alla fine inghiotte tutto.
Un libro che ha al centro l'assenza e l'impossibilità di conoscere davvero l’altro. Neppure la scrittura riesce ad aiutare. Chi ci prova a tentare di raccontare e conoscere è costretto a rinunciare.
Come Rose e Cenere è un romanzo sulla impossibilità patologica di vivere serenamente l’affetto, l’amore. Di darlo e di consentirsi di riceverlo. Anche qui la condizione omosessuale si eleva a paradigma universale. E anche qui il mondo militare, la guerra è il simbolo mostruoso di qualcosa che alla fine inghiotte tutto.