martedì 6 agosto 2019

James Purdy: Rose e cenere e Il nipote



James Purdy


Nella sua foto da vecchio ha lo sguardo vigile e spaurito, diffidente. Chi gliel’ha scattata e lo intervista  definisce il suo sguardo “l’amalgama di fragilità e passione di cui è vittima”. Somiglia all’ultimo Gadda. Ma, a parte certe ispidezze ed ossessioni, far confronti è un modo per andare fuori strada.  Uno dei tanti, con James Purdy. Finchè non si capisce che le somiglianze con lui non funzionano. E quindi neanche il setaccio delle categorie, per vagliarlo e classificarlo. Ha ragione Claudio Gorlier nella prefazione di Rose e cenere: “Purdy somiglia solo a se stesso”. 
A indagarci attorno più leggi, più scavi e più incuriosisce. Un personaggio anomalo, contraddittorio su tanti aspetti, interessante come pochi altri. Veniva da quella che chiamiamo sempre “America profonda”, quella bianca, rurale, che pensa di pancia e riflette sempre il sentimento dominante tra gli americani (solo due volte nella storia delle elezioni  in Ohio non ha vinto il candidato che poi sarebbe diventato Presidente). Veniva dal Midwest, ma è vissuto, quasi tutta la vita a Brooklyn, che invece è il pezzo d’America  più cosmopolita, cerebrale, intellettuale e salottiero.

Ha fatto lo scrittore di professione, ma i salotti non li frequentava;  non ha mai inseguito la mondanità e neppure il successo. I critici poi era gente da cui difendersi a pugni. Eppure molti della ventina di romanzi che ha scritto sono stati accolti come “folgoranti”.  Lui sembrava vantarsi di più dei tanti rifiuti a pubblicare che aveva ricevuto agli inizi. Uno dei suoi romanzi, Malcom, ebbe gran fortuna nella trasposizione teatrale. Però nel complesso è  rimasto un autore di culto tra gli scrittori, ma di cui le case editrici italiane non ristampano più niente da anni. Per trovare buona parte e non tutti i suoi romanzi bisogna andare su Ebay e benedire qualcuna delle tante piccole librerie di provincia che custodiscono tesori invenduti e che ora li mettono in rete per smaltirli a prezzi commoventi. Più facile trovare i suoi racconti, che vengono ritenuti da molti la sua cosa migliore.

Fu profondamente americano nei temi, nelle ambientazioni, nello stile eppure fu più apprezzato dal lettore medio europeo (e italiano in particolare) che da quello statunitense. Verso l’uno e verso l’altro restò nella stessa misura sostanzialmente indifferente e scettico; non aveva molto rispetto dei gusti né degli uni né degli altri. Non credeva nel suo successo e in qualche misura non lo voleva, perché non si sentiva uno scrittore da consumo di massa, in grado di incontrare la sensibilità e il gusto di moltitudini di lettori.  «Ho un’audience sotterranea. Lettori molto giovani o molto vecchi… Non sono in molti a ricordarsi di me. A volte mi fa piacere.»  Forse gli faceva piacere proprio il rimanere nascosto ed il fatto di rivolgersi a pochi.
Non ne  soffriva, però se ne lamentava. Con l’atteggiamento di chi sotto sotto pensa “peggio per voi”. Un lamentoso, sottaciuto compiacimento, tenuto caldo dal disprezzo: «No. Io sono un reietto. Mi vergogno persino di avere il televisore e di accenderlo di tanto in tanto. È una specie di buco di culo sanguinante che sparge sudiciume avvelenandoci tutti, con dei cretini che parlano a voce alta un inglese da analfabeti.»

La sua prosa,  se è sofisticata ed elitaria,  lo è (altra stranezza) per la sua elegantissima semplicità.  E l’eleganza fa contrasto con i contesti e le storie che descrive: di provincia o di microcosmi metropolitani marginali (intellettuali falliti oppure neri o vecchi e soprattutto omosessuali).
Come dire aristocratica raffinatezza letteraria per raccontare la cupa faccia in ombra del sogno americano, con i suoi miti del successo, dell’amore, della libertà di realizzare desideri. I suoi personaggi invece sono incapaci di accettare l'idea di poter amare ed essere amati e questo li relega ai margini di tutto, vocati al fallimento ed alla sconfitta.

Per andare avanti nel gioco delle anomalie e dei contrasti, Purdy è essenziale senza essere minimalista;  in realtà non mostra soltanto, ma racconta, analizza, scava.  I suoi personaggi sono complessi,  a più dimensioni e a più facce. Le sue descrizioni hanno una loro carica di suggestione sia lirica che metaforica; le sue storie sono piene di ossessioni, di mal di vivere, di fragilità e di consapevolezza della sofferenza. La voce narrante trasmette una sottesa, pudica empatia, una compassionevole condivisione, ma è anche crudele, dura, percorsa da una strana forma di cinismo:  il cinismo degli sconfitti, quella da risata dell’impiccato. 

Come tutta la migliore letteratura Purdy pratica e custodisce nei suoi libri quella che è fin dalle origini, dal Don Chisciotte, la peculiarità del romanzo come forma di comunicazione e cioè l’ambiguità. Il romanzo per essere un grande romanzo non deve esprimere verità, deve lasciare spazio all’indefinito, all’ambiguo implicito in ogni realtà, in ogni personaggio e in ogni storia;  e lasciare a chi legge il compito di porsi davanti a questa ambiguità. Non deve asserire, dirimere, assolvere o condannare.  Chi ha una verità da trasmettere scriva un saggio, non un romanzo. Al lettore di narrativa va lasciato lo spazio e la libertà per  fare l’esercizio di interpretare ed immaginare, di schierarsi o no e da che parte, di come inquadrare  il personaggio, la situazione, il senso che ha, se ne ha uno. Purdy è da questo punto di vista un grande romanziere.

Rose e Cenere è uno dei suoi romanzi più belli e originali. Di una tristezza a fatica masticabile e ancor più a fatica digeribile, dopo. È breve e scorrevole nonostante una traduzione inqualificabile, ma bisogna prendersi delle pause e spendere molti sospironi per finirlo.

C’entra, si,   “il volto triste dell’America” (alla  Anderson o alla Yates, per capirci), ma non bisogna farsi fuorviare da questa chiave. È vero che nella genesi stessa degli Stati Uniti, segnata  dai rudi costumi del nomadismo verso la frontiera, la compressione  fino alla demonizzazione della sfera dei sentimenti (una sorta di analfabetismo emozionale), è stata qualcosa che ha inciso profondamente. E insieme al puritanesimo anglosassone ha poi sorretto l’etica capitalistica del lavoro, della competizione e dell’individualismo elevato a religione, fino ad arrivare al managerialismo suicida di oggi. Il carico di sofferenze che questa roba ha prodotto  scalando nelle generazioni è spaventoso e la letteratura americana l’ha scavato a fondo.

Ma questo romanzo, per tematica e sensibilità, va al di là della dimensione americana. Perché  è soprattutto un romanzo sui non amati e su quelli che comunque non si riconoscono il diritto di amare. Al suo centro c’è il grande tema dell’amore vissuto come una malattia; come un inganno in cui non ci si riconosce il diritto di cadere; come una richiesta destinata a rimanere inevasa; come un bisogno ineliminabile e  intollerabile, che  denuncia  una debolezza inconfessabile e può portare solo alla vergogna di un  rifiuto.

Altro rischio da evitare è prenderlo come un libro sulla pena di vivere l’omosessualità. E rinchiuderlo in quella tematica li. Al contrario il fatto che  il contesto specifico sia quello dell’amore omosessuale aggiunge ulteriormente universalità al modo in cui il tema dell’amore malato viene sviluppato. È una cosa apparentemente forse paradossale; in realtà è proprio così  ed è forse la più notevole qualità del soggetto del romanzo. D’altronde, si capisce il perché. Nell’amore   omosessuale la differenza di genere non c’è, non c’è la biologica diversità tra uomo e donna ad inquinare la corretta declinazione di un tema che in effetti prescinde il genere e che riguarda qualcosa di  profondamente rannicchiato nel fondo di un certo tipo di mente umana, al di là della differenza di sesso. Anzi il contesto  omosessuale (in un’epoca in cui più di oggi era un tabù innominabile e rabbiosamente perseguitato) fa emergere meglio la sostanza e le radici appunto universali della incapacità di sentirsi nel diritto di chiedere e ricevere amore; della impossibilità di dare e ricevere comunicazioni con l’altro nella maniera più profonda e completa che sia a disposizione dell’essere umano e cioè con la mente e con il corpo insieme.

Quando si parla di questo tema è sempre centrale il ruolo delle madri. In questo romanzo sono figure dolenti e sconfitte, forse più dei loro figli. Sono vissute da loro come marziane da cui fuggire, a cui bisogna nascondere la verità più gelosamente che a tutti gli altri. Chiedono cose incomprensibili, motivate più dalla loro paura, dal  loro bisogno di riconoscimento e dalla ricerca di appagamento delle loro esigenze affettive e sociali, che da quelle di accompagnare e custodire le fragilità dei loro figli.

Azzeccatissima infine la scelta di individuare nel contesto militare, nella logica del comandare-obbedire che sfocia nella violenza brutale e letale, lo sbocco finale di tutto il dolore che il rigetto dell’amore  comporta. Se c’è un ambiente  estremo ed aberrante sotto quell’aspetto è proprio quello militare.

Un romanzo molto forte, anche vivace e brillante nella prima parte, ma è la seconda, quella più dura, la più bella. In tutte e due domina quel personaggio straordinario che è  Eustace Chisholm.



Il Nipote è  meno potente di Rose e cenere, più convenzionale per scenario e soggetto; ma proprio questo fa risaltare ancor più l’eleganza sommessa dello stile, la capacità straordinaria di restituire le tonalità e le atmosfere di ambienti e dialoghi. Una prosa di grande pulizia stilistica, senza una sbavatura. La sensazione è che incanterebbe anche descrivendo il nulla. Quegli scrittori da leggere come se lo ascoltassi mentre ci passeggi a fianco piano piano su un viale alberato.
Un libro che ha al centro l'assenza e l'impossibilità di conoscere davvero l’altro. Neppure la scrittura riesce ad aiutare. Chi ci prova a tentare di raccontare e conoscere è costretto a rinunciare.
Come Rose e Cenere è un romanzo sulla impossibilità patologica di vivere serenamente l’affetto, l’amore. Di darlo e di consentirsi di riceverlo. Anche qui la condizione omosessuale si eleva a paradigma universale. E anche qui il mondo militare, la guerra è il simbolo mostruoso di qualcosa che alla fine inghiotte tutto.