venerdì 16 agosto 2019

Il tempo di una canzone di Richard Powers


Romanzo grande e grande romanzo. Una esperienza di lettura emozionante e tormentante. Powers anche in questo si immerge in modo totale nell’argomento di cui scrive. Come sempre, fa e impone una full immersion nel soggetto, dentro il tema. Ma è il suo modo di lavorare. Usa una sorta di Metodo Stanislavsky applicato alla scrittura. Sta a Roth o a Bellow, come Volontè sta a Mastroianni. Studio preparatorio accurato, identificazione,  profondità, dettaglio, metodo contro  talento naturale, vocazione,  mal di vivere vissuto, naturalezza e semplicità. Ha scritto di recente un libro sugli alberi e pare sia una cosa a metà strada tra un trattato di fisiologia vegetale ed una bibbia ecologista. Powers è così. 
Richard Powers
Una certa dose di pedanteria, prolissità, autocompiacimento è implicita in questo suo modo di lavorare. E c’è anche in questo romanzo. La tonalità epica della prosa a volte è ridondante e a volte stona. È esagerato  il modo in cui allunga e ramifica e moltiplica descrizioni e situazioni, spinto dal bisogno di non tralasciare niente. Per chi mastica la fisica e la musica in modo non professionale diventa  esasperante. Ma  è gran bravura tecnica il modo in cui riesce a tener una quantità così  grossa  di temi così grossi e di suggestioni così sconfinate dentro un’architettura vertiginosa; che fa funzionare come un orologio, facendola ruotare  attorno al tema cardine  razziale. 
Complessa in modo armonico è anche la struttura del romanzo, con una articolazione temporale discontinua scandita col metronomo. Gli stacchi  ossigenano il lettore. Sono perfetti.  Il nucleo di identificazione dei personaggi viene trasmesso  ciascuno per un suo canale emozionale preciso. E quando ritrovi quel personaggio senti scattare dentro l’emozione precisa che deve darti. Si percepisce poi  insieme all’accuratezza degli studi preliminari,  l’esattezza immaginifica o l’altezza della scommessa narrativa  che innesta sopra gli specialismi che sfoggia senza pietà (sul tempo, sulla struttura dell’atomo e dell’universo, sulla storia e sulla tecnica della musica e del canto, sulla storia degli USA). Nonostante le difficoltà  di seguirlo per chi non ne sa abbastanza, ci sono  passaggi narrativi che anche l’ignaro può riconoscere come assolutamente straordinari.  
Come tutti i grandi romanzi  non ha risposte e nasconde chiavi di lettura più profonde di quella macroscopica del razzismo americano. Chi ha letto “Il dilemma del prigioniero” ci ritrova per esempio lo stesso impianto del vicolo senza uscita, stavolta applicato al tema dell’educazione nel tempo delle libertà.  Al  problema cioè che si è creato quando i genitori hanno sentito di non avere più nessuna certezza da trasmettere dentro un mondo diventato così fluido, complicato e spesso orrendo. Hanno (abbiamo) cominciato allora a coltivare l’idea  di poter sostituire le certezze con la possibilità e il dovere di cambiare il mondo. La libertà di scelta come passepartout esistenziale, per aprire tutte le prigioni dei vincoli di sangue, di razza e di ceto sociale, delle fedi e delle ideologie, delle identità e delle appartenenze. Insegnare ai propri figli a costruirsi da soli la propria musica, la propria armonia usando tutto quel che di buono c’è e si può inventare. Un meticciamento globale. È stata la grande conquista del nostro tempo, ma anche forse la madre di tutti i problemi del novecento questo tentativo, a pensarci bene. Con tutti gli errori che si possono commettere e le reazioni rabbiose che si possono provocare. Nel romanzo questa cosa viene fuori splendidamente.
Sta probabilmente nel colloquio finale, l’ultimo,  tra le madri di cui una (la figlia) prossima a partorire,  la chiave nascosta del romanzo. Lí viene svelata e mostrata plasticamente, la madre di tutti gli errori e l’errore di tutte le madri. Il tentativo di perimetrare e perpetuare nelle case e nelle  famiglia delle armonie dissonanti, degli incroci delle razze e delle musiche,  l’illusione monadica di autosufficienza, perfezione ed immortalità di cui loro sono state portatrici nella pancia e di cui noi ci ammaliamo tutti, in quei nove mesi. Il grande difficilissimo compito delle madri sta nel liberare piano piano i figli da quella illusione per prepararli al mondo, senza trasformarli in narcisi selvaggi oppure  in cariatidi prede della paura. Le madri stanno al centro del gigantesco dilemma tra la tentazione di ricreare fuori, nella famiglia e nel mondo, l’armonia perfetta che hanno portato dentro e il dovere di svelare l’inganno.  Non sempre ci riescono.