lunedì 26 agosto 2019

Il fabbricante di eco di Richard Powers



Ad un certo punto si autodefinisce: “romanzo neurologico”. E tale è, alla maniera di Powers.
Cioè con un’immersione integrale, che totalizza in un linguaggio ed in un orizzonte da neurologo il modo di sentirsi, di vedersi e di pensarsi dell’uomo del nostro tempo, nell’America dell’anno delle Torri Gemelle. Impressionante la serie di stranissime sindromi neurologiche che tira fuori.

Solo scommesse a poste elevatissime con Powers. E regge sempre il livello. Più o meno.
Cioè con tutti i pregi (soprattutto l'esattezza), grandissimi della sua prosa. E con tutta la capacità che ha di stimolare la riflessione, sulle visuali che propone, mai banali, dei temi che tocca. Ma anche con tutti i suoi difetti di “troppo”: troppo pieno, troppo denso, troppo labirintico e zigzagante. Rispetto al “Tempo di una canzone” meno coinvolgente dal punto di vista emotivo. I personaggi restano tutti un po’ avvolti in una nube, in un sospetto di artificio.

Però resta il merito maggiore di questo romanzo, che è un altro. I grandi romanzieri del passato a leggerli oggi, alla luce di quel che si sta scoprendo sul funzionamento del cervello, hanno avuto una straordinaria  capacità di intuizione. E’ tempo che il romanzo faccia un salto di qualità acquisendo i dati che ci stanno arrivando dai laboratori di ricerca sui fenomeni della percezione, della coscienza e dell’autocoscienza, dell’emozione e dell’empatia. E rinnovi temi, linguaggio e postazioni da cui raccontare le storie degli uomini. Powers ci prova e in parte ci riesce anche.