venerdì 10 maggio 2019

Leggere Kafka (ovvero, appunti di lettura di un lettore molto kafkiano)





GLI ANTEFATTI: IL PROFESSORE E FELLINI

Ero poco più di un bambino e il mio professore di lettere era appena tornato dalla Parigi del Maggio ’68. È stato forse il miglior professore che abbia mai avuto. Ha intuito e alimentato la mia passione per la lettura mentre era ancora una fiammella e soprattutto l’ha indirizzata. Tanto per fare un esempio, gli sarò sempre grato di avermi fatto scoprire Conrad, facendomi transitare quasi senza che me ne rendessi conto dalla letteratura d’avventura dell’adolescenza a quella che ti fa viaggiare dentro i mari non meno avventurosi della tua testa. 
Un giorno ci fece una lezione su La lettera al padre e Kafka. Quella che leggeva come un’invettiva contro l’Autorità lo esaltava e quella esaltazione di rivolta ci voleva trasmettere. Da una parte aveva ragione e dall'altra perpetuava un equivoco che ho impiegato circa quarant'anni a comprendere e smontare (poi ne parlerò). 
Ho continuato a leggere e ho letto molti libri da allora. Ho affrontato prove di lettura anche estreme. Eppure non sono mai riuscito a finire un libro di Kafka fino a circa dieci anni fa, quando faticosamente, per puro puntiglio e senza nessun piacere, ho letto La metamorfosi. Sono seguiti altri anni di miserrimi fallimenti.

Ho pensato spesso in quegli anni a Federico Fellini. Non solo e non tanto perché era un grande lettore di K. Aveva persino cominciato a lavorare ad un film su America. 
Mi sono detto che, per me lettore, Kafka somigliava a quel che G.Mastorna  aveva rappresentato per lui regista. Il film che aveva scritto e non si era mai deciso a fare. 
Due opere importanti e irraggiungibili, delle quali si è assaggiata e percepita la grandezza, ma che non si riesce a penetrare, per qualche misteriosa ragione. 
Fellini a un certo punto si è persino convinto che il G.Mastorna gli portasse sfortuna; che ogni volta che riprovava ad iniziare quel film gli succedesse una disgrazia, un incidente, una malattia. E anch'io ad un certo punto ho collegato i tentativi ripetuti di leggere K. con certi episodi sfortunati della mia vita. Però, Fellini diceva anche che per qualche misteriosa ragione quel film mai girato (poi con Manara ne fece uno splendido fumetto) e che aveva ormai deciso che mai avrebbe realizzato, era stata la sua miniera d'oro. Perché con le sue immagini aveva alimentato tutti i film che da Amarcord  in poi aveva invece portato a termine. Tutti punteggiati di scene inizialmente destinate al Mastorna. Esattamente come il mio percorso di lettura è stato segnato da autori amatissimi che hanno debiti dichiarati ed evidenti con Kafka (d'altronde, questo vale per quasi tutti gli scrittori che sono venuti dopo di lui).

I TUFFI,  LE FUGHE E L'ESCAPISTA

Attorno al buco nero kafkiano ho continuato a gravitare a lungo. Con brevi tuffi, irritate riemersioni e fughe con la testa girata all'indietro; mentre le sue immagini (Kafka parla per immagini, fotogrammi che somigliano a lampi o a fuochi fatui) mi rincorrevano. Qualche raccontino, due paginette, un articolo di critica, una lettera a Milena, la rilettura de la Lettera al padre, mezzo Processo; poi assaggi degli altri romanzi. Sempre, come masticassi polistirolo. 
Seguivano mesi da disertore. Poi ancora un ritorno con l'intenzione di prenderlo di petto seguita da brividi di non so che (freddo? angoscia? paura? rabbia? diffidenza? disgusto?). E' rimasto lì, misterioso e impenetrabile, nel Cimitero Monumentale, dove stanno i miei capolavori insopportabili:  grandi letture abbandonate anzitempo. 
In questo modo si può dire che con K. ho costruito uno stranissimo rapporto, che era (adesso lo so) molto kafkiano. Come fosse un extra terrestre, un essere di un altro mondo, un alieno. Anzi, uno zombie con le orecchie a sventola e il muso da topo, col quale proprio non mi riusciva di intendermi.

Nel tentativo di arrivare ad afferrarlo per molti anni ho letto saggi e articoli su K.. Non sono il solo ad aver seguito questo percorso tangenziale. La stessa cosa è successa, ho poi scoperto, al filosofo Franco Rella che ha scritto un magnifico saggio con una lettura parallela di Proust e Kafka. Ha scritto che con K. ha incontrato “molte difficoltà che mi spingono a girare ancora intorno a lui, senza affrontarlo direttamente”. 

Ad un certo punto deve essere successo qualcosa. Forse l’accumulo  di conoscenza indiretta dei suoi libri deve aver raggiunto una massa critica che ha fatto cambiare la qualità del mio approccio. O forse è stata la stessa curiosità  di scoprire la ragione per cui  mi respingeva a diventare il carburante  della controspinta ad avvicinarlo.
Fatto sta che un anno fa circa mi ci sono messo di impegno. In tre mesi ho letto tutti i racconti. Altri due mesi a leggere Il castello. Ancora un mese e mezzo a leggere Il processo. E poi America, i diari, gli epistolari. Mi manca giusto qualche frammento.
Mai con continuità. Letture spezzettate. Entravo e uscivo, ma non lo abbandonavo più.  Se K. era un escapista rispetto al mondo, io ho letto quasi tutto di lui da escapista: resettandomi continuamente e alternandolo con altre letture più “amichevoli”. Soprattutto, continuando a frequentare la  letteratura critica intorno alla sua opera (Adorno, Benjamin, Rella, Anders, Kundera ecc), che è straordinariamente varia, stimolante, persino godibile.

Posso di dire adesso di conoscerlo da lettore amatoriale meglio di quanto non conosca autori molto più affini e amati; ma so anche che tra questi K. non ci sarà mai. 
Credo di averne finalmente afferrato la grandezza: la pulizia stilistica, l’efficacia affabulatoria, la plasticità elegante, senza attriti, con cui salta le barriere tra reale e immaginario, tra uomini, animali e oggetti, e poi  la potenza visionaria, la ricchezza e la precisione con cui scandaglia un certo modo di sentirsi e di essere dell’uomo del novecento. Soprattutto so quanto K. sia importante per comprendere fin dove può arrivare la forza espressiva e l'utilità dell’arte del romanzo e quindi del leggere romanzi. E tutto questo, ora posso dirlo, ripaga alla grande  il senso di angoscia e di soffocamento che ancora mi prende leggendolo. 
Molti mi dicono e scrivono (David Foster Wallace su tutti) che K. va letto come un autore comico. Capisco cosa intendono e riconosco il fondamento del consiglio, ma a me non riesce. La sua lettura continua a farmi chiudere lo stomaco, c'è poco da fare. E quindi a riderci sopra non ci riuscirò mai, credo. Il “bizzarro piacere” di cui parla Kundera nei Testamenti traditi non riuscirò probabilmente mai a percepirlo.

IL LETTORE “KAFKIANO” E IL MONDO SENZA LOGICA

D'altronde lui stesso non voleva affatto essere amato e ancor meno voleva si provasse piacere a leggerlo. Lo diceva agli amici e lo scrisse. Voleva ferire il lettore, fargli male, costringerlo a sentirsi rincorso e poi "colpito allo stomaco". Ho immaginato che il suo lettore tipo abbia le mani legate dietro la schiena e gli occhi tenuti aperti a forza come in Arancia meccanica.
Voleva fargli vedere fino in fondo l’assurdità della condizione dell’uomo che percepiva così forte.  
Mi è venuto persino da pensare che il lettore-modello di Kafka paradossalmente potrebbe essere proprio un non-lettore, cioè un lettore talmente martoriato che non ce la fa ad andare avanti ed a finirlo.
Se il “concetto kafkiano di vita è “voler-arrivare" e "tuttavia-non-arrivare” il lettore estremo e paradossale, il  lettore più kafkiano di tutti, forse è proprio quello sono stato per tanti anni: quello che  vuole leggerlo e non ce la fa. 
Mi ha colpito per esempio il fatto che le sue storie sono pieni di uomini con la testa piegata e lo sguardo che va verso il basso. Un atteggiamento di rinuncia. Di umiltà, se non di umiliazione. Ecco, quello mi pare il ritratto della persona a cui immaginava di rivolgersi. Se ci vedeva, a noi che lo leggiamo, ci vedeva che abbandonavamo la pagina, per una pausa o per sempre, in quella posa lì.

Ogni lettore diceva Barthes deve passare attraverso la morte dell’autore, deve cioè riscriverselo leggendo, il suo libro. Kafka al contrario richiede la morte del lettore. Voleva che il lettore stesse fermo, immobile, lontano dalla tentazione di interpretare. E  ha reso l'interpretazione quasi impossibile. 
L’aggettivo kafkiano, d'altronde  quando lo si usa a definire una situazione allude anche alla sua incomprensibilità, al suo essere surreale, assurda, refrattaria a farsi analizzare dalla ragione.  Benjamin ha scritto (qualche decennio fa) che esistevano undicimila libri di critica letteraria su Kafka e ciascuno dava un’interpretazione diversa di ogni racconto e romanzo. Tutte possibili e tutte arbitrarie. 
Perché quello che scrive K. è scritto appunto senza ammettere interpretazione; e comunque senza rimandare ad un significato univoco. Il senso deve restare e resta un enigma. La scrittura sua è come la scrittura degli archetipi, dei miti, delle parabole. 
La cosa più calzante dal punto di vista per così dire tecnico  l’hanno detta Deleuze e Guattari parlando di “protocolli di esperienza” traslati dalla realtà su un altro piano. Un piano extra-territoriale rispetto a quello umano, su cui viene riprodotto lo scheletro della realtà, la sua struttura portante. L'obiettivo non è capire; è "solo" mostrare quanto sia grottesca, assurda, senza senso logico la condizione dell'uomo. 

Gli esseri umani in questo processo di traslazione vengono animalizzati o reificati, trasformati in prigionieri, esiliati in posti dove si seguono regole incomprensibili. Sono descritti come vittime di una misteriosa macchina sociale in cui una autorità invisibile e silenziosa che c'è o forse no, agisce attraverso una macchina burocratica che segue procedure e regole tanto rigide quanto incomprensibili. Regole inspiegate a cui però tutti si adeguano. Questa traslazione serve a K.  per esprimere una percezione che per lui era assolutamente reale della condizione umana. 
Il vero salto di qualità nel mio percorso di lettore me l'hanno fatto fare i Diari. Lì si capisce che non c’è differenza di temi, di umori, di visioni tra la sua quotidianità e i suoi romanzi e racconti. Si parla in sostanza della stessa cosa. Il cosiddetto realismo kafkiano, un filone interpretativo molto accreditato tra i critici e molto ben spiegato da Kundera, se coglie un aspetto della verità su K., a questo si riferisce. Sentirsi un insetto, sentirsi rinchiuso in una tana, vedersi iscritta sul corpo una colpa ignorata, tentare di essere ammessi senza riuscirci in un luogo dal quale ci si sente esiliati e stranieri erano tutte sue percezioni reali, delineavano il suo modo di stare e di sentirsi concretamente nel quotidiano. Non ha fatto che inserirle in strutture narrative e renderle così universali, con l'obiettivo di metterle a disposizione di tutti, come fosse una testimonianza di persona informata sui fatti. 

Che sarebbe poi, questa, l’essenza peculiare del romanzo come forma di espressione e di arte. L'arte di spostare la realtà nella finzione del racconto per renderla visibile nella sua struttura portante e nei suoi meccanismi di funzionamento. Lo spostamento più usato da K. è  nel mondo degli animali, ma va anche nel mondo delle cose e delle macchine. Gli stessi apparati istituzionali in cui si incarna “il potere” sono trasformati in una sorta di grande hardware in cui tutto è automatizzato, codificato, proceduralizzato. Le logiche, l'intelligenza con cui tutto questo è stato concepito sono oscure, forse dimenticate. O forse una logica non l’hanno mai avuta e dietro non c'è nessuna intelligenza. Che finalità si perseguano, dove portano e perché non si sa.

K. vuole  testimoniare soprattutto questa impossibilità di capire, questa apparente mancanza di logica, questa sequenza di paradossi che regolano la normalità. È una deposizione la sua, su come stanno le cose, dal suo punto di osservazione. Non c'è analisi. Non ci sono filosofie interpretative. E' qualcosa di completamente diverso dai meccanismi della metafora e dei simboli: non c'è qualcos'altro a cui alludere e se c'è K. dichiara di non sapere cos'è. Semplicemente,  Samsa si sente davvero un insetto e il condannato della colonia penale sente concretamente che qualcuno gli sta scrivendo sul corpo una colpa che ignora.  E K. si limita a raccontare com'è andata. 

L’ENIGMA CHE SI ADDENSA E LA TRAPPOLA DELL’INTERPRETAZIONE

Il lettore ovviamente fa fatica a riconoscere il reale nel mondo traslato e surreale che descrive K. Prova a fare il suo mestiere di libero lettore: decifrare,  smontare, svelare significati, riconoscere la sua esperienza, tentare di ricostruire un modello di pensiero. Ma con K. i conti non tornano mai. Quel che ne ricava un po’ gli sa di arbitrario e un po’ produce in lui angoscia, lo soffoca. Questo almeno è quello che succedeva a me, lettore molto kafkiano, caduto nella trappola dell'interpretazione.
Sentivo senza saperlo, per dirla con Benjamin, “l’enigma che si addensa” e che si solidifica in una materia inclassificabile. E quel tanto che se ne riconosce come oscuramente noto trasmette angoscia, estraneità irrimediabile, impotenza. 
In tutto questo adesso riconosco la genialità; perché K. riesce a riprodurre in me, nel lettore, esattamente quello che provava e voleva comunicare.

E' stato un passaggio fondamentale e liberatorio questo scoprire che un metodo interpretativo, una chiave che "apre" un significato, in K: non c'è. Che per comprendere K. bisogna "stare leggeri" in quanto a paradigmi e andare piuttosto per negazioni e per sottrazioni. 
Perché K., non aveva risposte sulle cause della condizione umana e non sapeva tracciare né vie di salvezza, né vie di fuga. La sola cosa che poteva fare per rompere la sua solitudine e quella del lettore era condividere le cose che vedeva e che sentiva. Con lui insomma da un certo punto di vista le cose sono più semplici di come si è portati a pensare avvicinandolo, per la fama che lo circonda e per la prima impressione che dà. 

K., al primo approccio, solo così può essere avvicinato. Stando sul semplice.  Se si sveglia e si sente agli occhi degli altri come un insetto, lui descrive com'è la vita di uno scarafaggio in mezzo agli uomini, nella casa, nella famiglia (La metamorfosi). Se si sente gravato di una colpa che non conosce cerca di capire qual è questa colpa e come può difendersi (Il processo). Se avverte come questa colpa gli venga scritta sul corpo con la malattia e la morte descrive la macchina infernale che lo fa (Nella colonia penale). Se percepisce il bisogno di difendersi e di barricarsi in un rifugio lo organizza e lo descrive con tutti i sistemi di protezioni e di difesa della propria sopravvivenza che riesce ad inventarsi (La tana). Se vive una vita che non riesce a condividere con nessuno, in cui non si sente accettato, in cui subisce una condizione di esilio e di attesa racconta le vicende di questo esilio (Il castello, America). Se si ammala e si trova a vagare da un luogo di cura all'altro in uno stato che non è morte e non è vita, descrive questo permanente spostamento che non porta a nessuna vera casa e non si sa dove mai porterà (Il cacciatore Gracco).
Si potrebbe continuare ad aprire in questo modo le sue storie;  con la chiave della più umile semplicità. Fino ad arrivare a Indagine di un cane (racconto splendido ed inesauribile come una sfinge o come il sorriso della Gioconda), uno dei suoi ultimi scritti, in cui cerca a suo modo di fare un riepilogo del percorso di guerra esistenziale che è stata la sua vita. 
La letteralità, ha ragione Anders, mi pare una tecnica di approccio importante; anche  più convincente del realismo traslato e della extra-territorializzazione che si diceva poco fa. Anche perché K. preso letteralmente ci parla per immagini; e nelle immagini possiamo riconoscere quel che noi stessi abbiamo vissuto.

Molti dei suoi racconti ci spiegano poi perché racconta, perché scrive. Un po’ per sentirsi meno solo e più protetto in un ruolo; e un po’ per rompere la solitudine degli altri e provare lui ad avvertirli, a proteggerli. Un po’ perché altro non può e non vuol fare. 
Può solo lasciare appunto una testimonianza. E (questo è l'aspetto più importante credo) racconta di farlo con la consapevolezza di non essere capito, di essere consapevole che l’aiuto che può offrire è insignificante, che non servirà a nessuno per risolvere il problema.  Pensa che non verrà mai preso sul serio e finirà semplicemente con l’essere dimenticato (La cantante Josephine). Kafka non è stato mai consapevole della importanza che la sua opera avrebbe avuto nella storia della letteratura. Pensava davvero che nessuno si sarebbe mai seriamente occupato di quel che aveva scritto.

OLTRE IL SENSO

Sia che tentiamo di entrare dalla porta della letteralità e delle immagini, sia che lo guardiamo in visuale realista oppure che proviamo a decifrarlo come se fossimo davanti a simboli, metafore, allegorie o parabole, abbiamo la conferma che non c’è in nessuna opera di K. e in nessun passo di nessuno dei suoi libri la chiave unica, la formula che consente di decrittare inequivocabilmente tutto. Per Proust esiste. C'è per Joyce, per Musil, per Gadda. Per tutti i grandissimi del novecento si può trovare una sequenza concettuale che funziona come un passepartout interpretativo (poi le loro costruzioni si rivelano cattedrali o labirinti, ma intanto sei entrato e ti ci puoi muovere dentro, andando ai livelli di lettura su cui riesci a salire). Per K. non è possibile. E leggere i suoi libri cercando il passepartout è un errore che produce solo frustrazioni. Lo so per esperienza e trovarlo scritto sulla migliore critica mi ha spiegato e lenito le mie frustrazioni ultradecennali.

Se abbiamo detto che K. è enigmatico, se è vero che ha prodotto enigmi, dobbiamo sapere che i suoi enigmi non hanno una soluzione. O almeno, non ne hanno una sola e non ce n’è nemmeno una di cui si può essere certi. A quante decine di migliaia di interpretazioni saranno arrivati i critici, oggi? Questa scoperta per me è stata fondamentale. Forse solo Borges è paragonabile a lui per come e quanto abbia fatto girare a vuoto la critica letteraria professionale.
La verità è che c'è una ragione sostanziale per cui con Kafka si deve per forza andare oltre la ricerca del senso. Una ragione che discende dal suo modo di intendere la vita stessa, oltre che  l'arte del raccontarla. K. va oltre la ricerca di un senso nella visione della vita e della realtà, dello stare al mondo dell'uomo. 
Per questo,  quando racconta va oltre lo schema di una trama che porta  ad uno scioglimento in un epilogo. D'altronde l’incompiuta è un tratto caratteristico della letteratura di quell'epoca e che riemerge lungo tutto il secolo (da Musil a Gadda). 
E dove porta, dove si ferma la visione di K? Ha ragione Adorno quando dice che se proprio vogliamo scovare una frase che riassume intenzioni e sostanza di quel che K. ha scritto bisogna citare quello che spesso lui stesso in modo disarmante ha ripetuto e scritto: solo e semplicemente un desolante “è così”. Cioè, così come ve le racconto stanno le cose. Non c’è una spiegazione. Posso dare solo solo una descrizione. Ed "è così". 

Di fronte a tanta disarmante semplicità il lettore di K., professionale o amatoriale che sia, diventa come i suoi personaggi. Vorrebbero tutti  capire e non ci riescono. Occhi bassi. E chi ci riesce fa un sorriso amaro. Tutti sorpresi dal paradosso. Tutti oppressi e soffocati dal senso di inadeguatezza, di estraneità e di colpa di fronte alla mancanza di risposte, di una spiegazione. Col dubbio terrorizzante che non ci sia niente da capire. Diventiamo tutti l'agrimensore del Castello, prigionieri del villaggio kafkiano, del meccanismo oscuro che ci ha consentito di esserci e che, nello stesso silenzio di motivazioni, ci riassorbirà e ci dimenticherà. E il soggetto che gestisce il meccanismo, la procedura, ammesso che ci sia davvero Qualcosa o Qualcuno (un potere divino, un Imperatore oppure solo una  burocrazia autoreferenziale), non si lascia interrogare, non ammette un confronto, tace, non manda messaggi. Probabilmente non ha niente da dire.

Non risponde e non si fa vedere, esattamente come il signor Conte del Castello o come i giudici del Processo. Precluso ogni dialogo e impossibile qualsiasi integrazione nel disegno, diventa impossibile non solo la salvezza, ma anche semplicemente sentirsi parti di un Tutto. E' una condizione di buio e di solitudine assoluta.
Sono tutti esseri notturni ed esangui, i protagonisti kafkiani, fotografati nella loro carnale  inermità in “uno spazio privo di spazio” (Adorno). Uno spazio in cui tutto è regolato da questa  forza indefinibile, irraggiungibile e incomprensibile che non ammette nessuna deviazione da un corso tanto rigidamente stabilito quanto privo di una direzione visibile. Se ti ostini a cercare una verità resti tagliato fuori, ti metti fuori dalla normalità e non vieni capito. Diventi un mostro: un insetto pensante, un topo cantante, un cane musicista oppure un lettore che abbandona. Per sfuggire a questo destino potresti solo decidere di condividere senza capire, ma questo significa solo arrendersi ad una menzogna.  K. non ce la fa.
Resta aperta solo la strada dell'accettazione passiva del rifiuto che ti viene opposto, del fatto di non essere accettato. C’è una forma di umiltà in K., ma è disperata e suo malgrado, se si riesce a sorridere, come si diceva, comica. Oltre non si va. Il lettore che vuole arrivare fino in fondo questo atteggiamento deve assumere. O almeno è da questa porta che alla fine io sono passato.

TRE EQUIVOCI

Adesso capisco bene anche l’equivoco gigantesco in cui il mio pur amatissimo prof mi fece cadere. Perché tale è, oppure è un grossolano tentativo di indebita appropriazione, quello in cui è caduto chi fa una lettura (chiamiamola così) di sinistra di Kafka. 
K. è certamente figlio di una società che viene stravolta dal capitalismo trionfante e ci aiuta più di tutti gli altri scrittori del suo tempo a capire l’effetto dell’alienazione nelle relazioni sociali e nella psiche dell’uomo. Ma a questo ruolo di testimone bisogna fermarsi. Perché K. non crede in nessuna prospettiva storica di riscatto. La verità, caro professore, è che vorrebbe amarlo il padre. E sentirsi amato. Non, spodestarlo. Il cambiamento che tutto risolve è qualcosa che K. proprio non vede; finge per pura compassione di lasciarlo confinato in un futuro che però in realtà ritiene irraggiungibile. Lui comunque, dice, non lo vedrà. 
Nessuno più di lui ha descritto l’alienazione dell’uomo, la percezione di estraneità ai contesti sociali in cui si trova a vivere. Certo, che ci aiuta a comprendere la condizione dell’uomo nell'età del capitalismo trionfante! Ma  la storicizzazione  della condizione dell’uomo in Kafka è totalmente arbitraria. È legittimo e utile usarla, ma non bisogna dimenticare che K. pensava di descrivere una condizione universale che prescinde e precede qualsiasi contingenza storica.  Avrebbe potuto ambientare i suoi romanzi nell'età del bronzo e quel che aveva di dire sarebbe stato lo stesso perfettamente pertinente. Perché quel che descrive è connaturato alla misteriosa ragione che fa esistere l’uomo e poi lo riporta nel nulla, in un ciclo eterno. 

La prospettiva agognata per lui sta esattamente nella direzione opposta a quella di una lotta, di una ribellione, di una emancipazione. Il suo sogno è integrarsi. Il suo incubo è non riuscirci. Vorrebbe arrivare a sentirsi bene nel mondo, a casa sua, in famiglia, col padre, con la fidanzata, in mezzo alla gente, col suo lavoro. Il suo problema non è mai stato cambiare il mondo e gli altri, ma comprenderli ed essere compreso: accettare, dopo averne capito le regole, il gioco della società e farsi accettare. 
Non a caso, il sentimento-racket di K., quello del quale è perenne prigioniero, non è la paura o la rabbia rivoluzionaria:  è l’invidia. Lo sa e lo dice. Invidia la capacità di accettare e godere la normalità: “un giorno ho invidiato molto un tale perché era amato, in buone mani, protetto dall'intelligenza e dall'energia e giaceva tranquillo sotto una coltre di fiori. Io sono sempre portato all'invidia

L’arbitrarietà di una lettura progressista fa esattamente il paio con quella della lettura innescata da Max Brod, che ha cercato di farne un scrittore con una visione religiosa della vita. 
Kafka, come non crede e non cerca di salvarsi in un mondo migliore, in una futura umanità, così non crede in un nessun aldilà. K. non ha  fedi, come non ha ideologie. E la chiave strettamente ebraica funziona solo al netto della componente più strettamente religiosa.
Ebraismo per K. è soprattutto sentirsi straniero, non avere una lingua-madre e una patria  in cui sentirsi a casa. Il suo retaggio culturale ebraico vale per la componente fondamentale che porta con sé di millenaria extraterritorialità, per l’esilio, per l’essere insomma incarnazione dell'ebreo errante. E questa figura con lui diventa paradigma universale della condizione umana.
Per chiudere questo discorso, bisogna dar ragione a Remo Cantoni: Kafka  “non è uno scrittore edificante. È uno scrittore tragico”. Solo con una certa forzatura, non so quanto legittima, si può arrivare  a dire che avendo "un sentimento tragico della vita", per usare la categoria di De Unamuno, forse nutriva il bisogno di arrivare ad una visione religiosa dell'essere, a sentirsi in comunione con tutto ciò che "è". Sta di fatto che non ci è mai arrivato.

Esiste una terza lettura, oltre a quella politica ed a quella religiosa. Forse ha anche maggior fondamento, ma sarebbe comunque sbagliato adottarla come esaustiva o anche solo come determinante. Penso alla lettura psicanalitica, che si è incardinata su un problema edipico da cui ha poi fatto discendere tutta la carica di disadattamento e di ribellione passiva contro ogni declinazione della figura paterna (il potere terreno e quello divino, l’Autorità in quanto tale). Una chiave che, come le altre d'altronde, un suo senso ce l'ha e quindi aiuta a capire, perché mette in luce aspetti importanti del modo di vedere sé stesso e il mondo di K. 
Ma è una lettura che si scontra con due limiti: il primo è  di non tener conto che per K. oltre quella psicologica ha avuto un peso anche maggiore la fragilità fisica, la malattia, nel determinare la sua difficoltà di integrazione. E tra malattia fisica e malattia esistenziale si è innescato un meccanismo di rinforzo reciproco al punto che K. è arrivato a considerare la tubercolosi come la sua condizione naturale, una sorta di rifugio: più che un destino, un completamento di sé. 
Il secondo limite è che da queste componenti attribuibili alla sua condizione individuale (fisica e psicologica), K. ha estratto, vissuto e raccontato una percezione della condizione umana che ha un valore universale. Qualcosa che sta al di là della sua condizione personale, così come sta al di là del tempo storico in cui è vissuto. D'altronde se volessimo stare nella stretta interpretazione psicanalitica e farla diventare pervasiva ci ritroveremmo in un universo, quello kafkiano, completamente edipizzato. E così non è.

K. peraltro non fa alcun affidamento nemmeno nel metodo scientifico e nel progresso determinato dalle scienze. La parcellizzazione della conoscenza in specialismi per lui rende impossibile la ricomposizione dei saperi nella direzione che porti alla  scoperta di un senso ultimo, di una verità che ricomponga il reale in una logica che funziona. Un'altra strada sbarrata.

KAFKA E LEOPARDI

Si può concludere, per tirare le somme, che Kafka per una sua peculiare, patologica conformazione fisica e mentale si sentiva escluso e incapace di entrare nel mondo degli altri. Incapace di stabilire un rapporto positivo col padre e la famiglia di origine. Incapace di immaginarsi marito e padre a sua volta. Incapace di vedersi realizzato con un lavoro, un giro di amici, qualche hobby, qualche viaggio. E allora si è collocato fuori, vivendo di notte nel ruolo del testimone narrante. Non perché credesse di essere utile in qualche modo, ma per assecondare una vocazione insopprimibile.  In quel ruolo si è riconosciuto; ha cominciato ad osservarla, la vita, piuttosto che viverla, usando il talento che si portava dentro di osservare e nominare le cose. 

Era scrittore fino al midollo. Non un filosofo. Da questo punto di vista mi sembra molto interessante l'accostamento tra Leopardi. Il primo accostamento e per contrasto. Perché Leopardi filosofo invece lo era. Filosofo forse prima che poeta. C'era un sistema organico di pensiero, dietro i suoi versi: quello  enciclopizzato nello Zibaldone. Ma c'è anche un'altra ragione interessante, per accostarli. Stavolta per analogia, presunta o reale che la si giudichi.
Una delle categorie con cui si è tentato di classificare K. è il nichilismo. Anche questa definizione ha una sua utilità, ma io credo valga come tutte le altre solo come approssimazione. E in effetti quello di K. somiglia molto al nichilismo di Leopardi, ma con una differenza fondamentale: nella sua visione una matrice, per quanto negativa, non si trova. Non si arriva come in Leopardi ad alzare l’indice accusatorio verso la Natura matrigna che inganna i figli suoi. 
Leopardi lanciava invettive. K. prende atto e resta fuori della porta ad aspettare che qualcuno apra.
Leopardi trovava nella classicità e nella contemplazione della bellezza di un istante, la possibilità di sottrarsi agli inganni della realtà ed al girare a vuoto intorno ad essa del pensiero. A K. questa possibilità non è data. Kafka una cosa come l'Infinito non avrebbe mai potuta scriverla.

Chi ha voluto fare della dimensione nichilista la chiave di lettura universale dell’opera di K. pensa di trovare nel suo ordine dato a Brod di bruciare tutto quello che aveva lasciato scritto la prova, giustappunto, fumante. Poi naturalmente vale come sempre anche l’interpretazione opposta: che in realtà se voleva questo,  l’avrebbe fatto lui. E resta il fatto che la sua vocazione  era quella di scrivere.
Possiamo anche dire che come davanti all'idea di Dio, anche  davanti all'idea del nulla, Kafka, a in realtà è agnostico. Ma è un modo per volerlo per forza un'altra volta classificare con un'etichetta. 
Se  vogliamo essere più onesti e più esatti, penso che dobbiamo limitarci a dire che Kafka era uno scrittore integrale: aveva la forma mentis di chi è nato solo per narrare e quindi custodisce gelosamente la postazione di mero osservatore e l'ambiguità buona e preziosa del romanziere a tutto tondo. K. racconta e basta. E per il resto dice solo di non sapere, di non  riuscire a capire, di porsi  soltanto delle domande. Domande a cui, registra, nessuno risponde. Anche i messaggeri del Nulla secondo K. non hanno messaggi da recapitarci. Tant'è! (anzi, "é  così").

IL TEMPO NON ESISTE E LO SPAZIO È UN LABIRINTO

La concezione del tempo è una delle cose più importanti e interessanti della narrativa di Kafka. Se Proust considerava il tempo la dimensione fondamentale, quella percorrendo la quale era forse possibile raggiungere una qualche salvezza che l’arte è in grado di intuire e prefigurare; se Faulkner riuscì a dare del tempo una visione narrativa tridimensionale per cui nel presente riusciva a raccontare il passato e insieme a vederci i semi del futuro; in Kafka, semplicemente, il tempo non esiste. C’è una immutabilità disperante che stagna senza fine, senza passato e senza futuro. 
Lo stesso rifugiarsi nel presente in Kafka non è una via d’uscita.  Perché nel presente non fa che ripetersi il passato e anticiparsi il futuro senza che nella sostanza profonda cambi nulla. 
Il vicinissimo ed il distante nel tempo kafkiano sono la stessa cosa, fungibili l’uno con l’altro, si alternano arbitrariamente, imprevedibilmente.  La dimensione temporale dei fatti raccontati non c’è. 
Quanto dura la permanenza dell’agrimensore nel villaggio del Castello? Provate a calcolarlo, mettendo in ordine cronologico le cose che succedono e vedrete che i conti non tornano. 

Questa concezione del tempo ha effetti a cascata su aspetti fondamentali della vita nell'universo come lo vedeva K. 
Sugli spostamenti nello spazio per esempio: ciò che si immagina vicinissimo è in realtà irraggiungibile. Lo spazio perde ogni caratteristica di linearità e diventa un labirinto ingombro di ostacoli (scale, moltitudini, cortili, soffitte, cantine, altri palazzi). Il messaggero impiegherebbe millenni a recapitare il messaggio dell'imperatore. "Tu, però, stai alla tua finestra e lo sogni, quando scende la sera". Tempo che scorre e immobilità dell'attesa. K. sta alla finestra. Guarda e sogna.

Un altro effetto riguarda le attività di costruzione che l’uomo intraprende. Le grandi costruzioni in senso materiale dei suoi racconti (la Torre di Babele, la Muraglia cinese),  sono imprese assurde, senza senso. E lo sono proprio perché la loro durata nel tempo, i loro tempi di realizzazione sono così vaghi e incommensurabili, che compromettono la possibilità umana di vedere un termine, di immaginare una fine e di integrarli nella quotidianità che scorre.
Anche la progettualità esistenziale, i progetti di vita si perdono in una indefinitezza che paralizza o rende invisibile l’orizzonte delle fattibilità, in cui si possa immaginare di arrivare ad una realizzazione di qualcosa, di realizzare sé stessi . Al massimo si può ambire alla sopravvivenza. E già quella è un'impresa.

L’ARTE E L’OBLIO

Se il costruire è una via di salvezza impraticabile resta solo il togliere: la rinuncia, la presa d’atto del rifiuto, il digiuno. Il tema del digiuno riempie alcune delle pagine più belle di Kafka e si collega sempre al tema dell'arte e della vita dell'artista.
L'arte in Proust salva. In K. questa presunzione salvifica non c'è. La dimensione artistica, quella identificata con la scrittura, ma anche con la musica contiene certo una possibilità, una promessa di ripristino dell’armonia col reale. 
Ma contiene forse invece qualcosa di terribile: la rivelazione definitiva e sconvolgente della mancanza di senso di tutte le cose e della nostra esistenza. 
La verità non solo forse non esiste e tutto il darsi da fare dello scrittore non porta da nessuna parte, ma se esiste può solo metterti davanti al destino obbligato dell'oblio. Quindi smaniare per conoscerla e pretendere di comunicarla come fa lo scrittore, come fa lui, diventa  una colpa. Chi ce l’ha nel sangue la spinta ad interrogarsi, dovrebbe imporsi di tenere per sé le sue cose, tacere e sparire, farsi dimenticare. Silenzio in vita e oblio in morte. Gli artisti di K. sono artisti del digiuno, fischiano, cantano, ballano nudi; sempre senza essere creduti o capiti. E alla fine spariscono nella dimenticanza. Qui sta la chiave vera della richiesta di bruciare le sue opere. E' il paradosso dell'opera kafkiana che vuole ricongiungersi col prototipo del lettore kafkiano: il non-lettore.

L’ULTIMO PARADOSSO DI KAFKA

Posso chiudere i miei conti con K. e toglierlo dal Cimitero Monumentale, rileggendo quel che racconta Willy Haas nella sua premessa alle Lettere a Milena:

“Per me è sempre stato un fatto impressionante e caratteristico che Kafka sia stato l'unico genio europeo il quale realmente e fuori d'ogni dubbio abbandonò questo mondo con un paradosso brillante e formulato con la massima precisione, con una realmente “ultima parola”: allorché si trovò a non poter più sopportare i dolori, rammentò al dottor Klopstock, suo amico e medico, la promessa di fargli un'iniezione mortale di oppio, quando si fosse arrivati a quel punto; e siccome il medico esitava, Kafka gli disse: “Mi uccida – o lei è un assassino!”

In questa sua ultima frase c’è tutto Kafka. 
Il paradosso usato per arrivare all'esattezza. Il surreale per descrivere la realtà. La disperazione per produrre una comicità che strazia. La fragilità tradotta in forza invincibile attraverso la rinuncia, l'autoesilio, il digiuno estremo di vita. “Chi tranne lui, nell'ultima agonia dello strazio fisico, sarebbe stato capace di lanciare in aria una simile folgore infocata?