sabato 18 maggio 2019

La sposa vermiglia di Tea Ranno







Ha un impianto narrativo da teatro dei pupi, da “cunto” di piazza, con nel soggetto (pare sia una storia vera) quel tanto di demodè, di favola rosa, utilizzato coraggiosamente, senza pudore, sul versante cuore-amore. A tratti, a chi prende il caffè senza zucchero, il sospetto di essere capitato dentro un Harmony può suscitare tentazioni da piromane, ma a volte è cosa buona aspettare a dar fuoco ed esercitarsi alla tolleranza di certi appiccicosi disagi. Se si resiste, si scopre che su quell’impianto ci stanno innestate diverse cose interessanti. Alcune anche di pregio.

Intanto, c’è un retroterra culturale schieratamente femminista. L’epopea melodrammaticissima di una sicilianuzza delicata e sottomessa di buona famiglia che viene ammaritata pifforza dal padre venalissimo al ricco-vecchio-porco-fascista-mafioso e che si innamora a botta di sguardi del bello-giovane-tenebroso, diventa una denuncia della condizione femminile nella società patriarcale. Come dire, il feuilleton più rosa arruolato sotto il cartello “io sono mia”. Un riciclo audace, ma ci sta.

La seconda è che tutto si svolge appunto negli anni dell’ascesa del fascismo per cui all’abiezione testosteronica si aggiunge quella totalitaria. E anche questa commistione politico-ormonale, che è ineccepibile, non è giocata per niente male. Per esempio anche ricordandoci a colpi di charleston e altre cose consimili che gli anni ‘20 sono stati anni di grande esplosione della libertà dei costumi, dell’anticonformismo, della creatività. Bisognerà attraversare vent’anni di fascismo e vent’anni e passa di democristianesimo per tornare, negli anni ’60, a giocarsi quella partita lì.

La terza è che sul romantico pathos della vicenda, innesta, insieme col dialetto, il tempo verbale al futuro. Una cosa abbastanza originale, che funziona molto bene. Da una parte per dare un carattere di ineluttabilità agli eventi (andrà così perché non altrimenti potrà andare) ed esprimere il cinismo disincantato, il fatalismo, così tanto siciliano. Dall’altra, il futuro è funzionale a gestire le anticipazioni. Ogni tanto, in quel modo, il racconto fa una fuga in avanti e poi viene ripreso e riportato al tempo presente originario. Il che produce attenzione e tensione narrativa. L’uso del futuro è la cosa migliore del libro.

Infine fa comparire nel paese dove si svolge la vicenda la scrittrice che interroga i vecchi, indaga e intanto attualizza e inquadra nel tempo quel che accadde. Anche questo arieggia e movimenta l’odore di tutto lo zucchero che brucia a profusione del tema principale.
Tra le qualità aggiungeremmo anche la Sicilia, quella interna a ridosso di Augusta (non manca nemmeno una spolveratina ecologista) e dove c’è la Sicilia c’è sempre un valore aggiunto, narrativamente parlando.
Insomma alla fine, nonostante la colorazione rosa di fondo che un po’ “stucca”, non è spiacevole leggerlo.