mercoledì 22 maggio 2019

Giulia e Fausto di Alessandra De Stefano




Di libri su Coppi ne sono stati contati secondo un recente inserto del Corriere della Sera duecentotrenta. I filmati, i documentari che ogni tanto passano in tv continuano ad essere visti. Il mito non tramonta. E anche per chi era un bambino quando è morto, Coppi è diventato un mito. Non c’è anno a gennaio, quando ricorre l’anniversario della morte che non corriamo anche noi a rinfrescarlo. Con uno spezzone televisivo, un libro, una paginetta scritta, una conversazione. Quest’anno si celebra il centenario dalla nascita. Oggi il Giro d'Italia fa tappa a Novi Ligure dove visse gran parte della sua vita. 
Volevamo da tanto venire a capo di questa fascinazione, nostra e collettiva, che dura da più di mezzo secolo. Abbiamo cercato e il meglio che abbiamo trovato è questo libro. Ha il taglio del reportage. Ci si trovano considerazioni e dettagli che altrove non si trovano. Va letto guardando in rete foto e filmati. E forse stavolta abbiamo capito.

Di lui restano oggi due figli e la sua storia. Ed è quella, la sostanza narrativa asciugata dal tempo, che ha una potenza incredibile. Materiale letterario di primissima qualità. Depurata dalla cronaca, resta una trama romantica che non ha eguali nella storia italiana recente. Letta come una tragedia moderna, la vicenda di Fausto Coppi è potenzialmente grande letteratura. Questa è la ragione per cui chi è affamato di storie che rimandano a paradigmi universali non smette di scavarci dentro.

Cominciamo dalla fine, la morte. 
Si sa, niente contribuisce più  della morte giovane a fondare i miti. Quella di Coppi fu stupida e quindi  crudelissima. A neanche quarant'anni. Per un errore del medico di famiglia e del primario dell’ospedale. Malaria non diagnosticata. Bastavano due fiale di chinino; come per Raphael Geminiani, il gregario che lo aveva accompagnato in Africa e che si salvò senza troppi problemi.
Sembra incredibile che una vita possa finire così; tanto più se si tratta dell’eroe sportivo più importante della storia italiana. Lo scarto tra la vittima, una figura popolarissima, gigantesca nell'immaginario collettivo e il fattore della morte, che più banale non si può, già di per se è fatta per alimentare suggestioni. Nessuno più di  Coppi ha incarnato la leggenda del Campione sportivo nella storia di questo paese. Campionissimo, non a caso lo chiamarono. E non è solo un fatto di vittorie. Tante, certo, ma non è la quantità che fa la differenza. 
Intanto il ciclismo era lo sport più popolare alla pari col calcio in quegli anni. Poi quelli erano gli anni della guerra e del dopoguerra. Per le strade del Giro c’era un popolo vivo e dolorante, sensibilissimo a tutto quello che poteva tenerlo attaccato alla fatica e alla bellezza del vivere. Aperto alla emozioni. Affamato di sentimenti. Quando hai la paura dietro le spalle, l’hai scampata dai bombardamenti e dalle trincee hai gli occhi e il cuore aperti agli altri, con la voglia di tornare in qualche modo a giocare con le cose e con la vita. Un popolo endorfinizzato dalle sofferenze, capace e persino bisognoso di riconoscersi ancora vivo e unito. Che cercava la conferma che tutto quel faticare e soffrire  portava da qualche parte, aveva un senso, una direzione ed un traguardo; e che in qualche modo poteva persino portare ad un premio. Il ciclismo poi portava questa rappresentazione di senso sotto casa, nelle strade del paesino. In un momento in cui c’era solo la radio e il cinegiornale a farti sentire dentro al mondo. Poi i campioni del ciclismo impersonavano la possibilità attraverso la fatica di guadagnarsi il riscatto sociale,  la ricchezza. E la fatica la conoscevano tutti.

Coppi la fatica del vivere c’è l’aveva nel DNA contadino, nella goffaggine del corpo modellato sui solchi delle campagne, nella timidezza guardinga dello sguardo, nella chiusura e nella ostinazione sorda e muta del carattere. Salì in sella ad una bicicletta per scansare la zappa. Andava a fare le consegne per una salumeria per non stare sulla terra del padre. Ce lo mandarono perché era gracilino. E aveva uno sguardo spaurito. Salendo in sella invece sentì che quel fisico così inadatto alla quotidianità del maschio contadino si trasformava, anche esteticamente; tirava fuori una vocazione naturale di cui forse fu il primo a sorprendersi.
Due gambe lunghissime che davano un’idea di potenza e di fragilità insieme. Un torace abnorme, gonfio di due polmoni ipertrofici e di un cuore rallentato. 
Vederlo in un filmato camminare al mare nudo, con due pinne ai piedi sembra un mostriciattolo. Steso a letto in una delle tante degenze ospedaliere per fratture alle ossa, che si spezzavano come cristalli troppo sottili, fa pensare più a Leopardi che ad un atleta. 
Eppure la metafora corrente con cui lo descrivevano quando stava sulla bicicletta da corsa  era quella dell’airone: elegante, aerodinamico, con una potenza che sembrava ignorare l’attrito degli elementi, mosso da una energia senza materia, misteriosa, in cui lo sforzo dei muscoli e del respiro sembra irrintracciabile, nascosta sotto una classe inconsapevole e irraggiungibile. Qualcosa che fa pensare alla danza di un essere mitologico: la pedalata era come il moto naturale di un animale metà uomo e metà bicicletta. Il mito di Coppi è fondato anche e  prima di tutto sulla iconizzazione di un corpo. Sulla sua capacità di apparire contemporaneamente sui poli opposti della scala della forza e della  bellezza umane.
Polarizzata sugli opposti fu anche la vita di Coppi, costellata di successi trionfali e di tragedie, sportive e private. Prima di quella morte da tragedia greca, le cadute rovinose e le fratture, tutte e sempre quando era al culmine del vigore, del successo e della popolarità, mentre incarnava la voglia di identificarsi in un vincente del suo popolo. L'Italia pianse, prima che sul suo cadavere giovane, sulle sue ossa di cristallo frantumate. Poi la morte del fratello Serse, che aveva avviato lui alle corse; più di un fratello minore: un amico, un complice e il più fedele dei gregari.  Morì con una caduta durante una corsa, davanti ai suoi occhi.

E poi c'è la storia con Gulia Occhini, la Dama Bianca. 
Il reportage della De Stefano gravita attorno a quella. E non è un libro con la pretesa della imparzialità;  è schierato. Ci è piaciuto anche per questo.


Inutile girarci intorno: quella vicenda lì è centrale, decisiva nella sua vita e nella sua leggenda. E’indispensabile per capire l’uomo e quello che ancora incarna nel nostro immaginario. La verità è che il mito di Coppi non è solo il più importante mito sportivo italiano. E' soprattutto il più importante mito romantico del novecento italiano. Assume per l'appunto un valore affabulatorio unico. Parla degli italiani. Nel libro della De Stefano questa cosa esce fuori bene. E’ un’inchiesta giornalistica, questa, ma prima o poi qualcuno lo scriverà un grande romanzo su quella storia. 
Gli ingredienti ci sono tutti. 
Fu una storia d’amore con una potenza  trasgressiva deflagrante, dolcissima e spudorata. Esplose tra le mani dei due e mise in discussione i valori che erano fondanti della società di quell'epoca: la indissolubilità del matrimonio, la sacralità della famiglia, della maternità e della paternità, l’etica puritana applicata allo sport e alla vita pubblica. L'esposizione pubblica e insieme silenziosa dei sentimenti più nobili e dell’attrazione carnale più irresistibile, scatenò una reazione collettiva altrettanto viscerale. Svolse suo malgrado la funzione di far venire fuori un’Italia libera, che aveva rispetto più di quello che provava che dei valori dominanti. E fece venir fuori anche un’altra Italia, brutta quanto quella di oggi; magari, in un altro modo, forse anche più brutta. Un’Italia malata di cattolicesimo bigotto (la Chiesa si scatenò con gli anatemi), di furia moralistica, di invidia plebea. 
Si può dire che la fu la stessa intransigenza silenziosa con cui i due difesero e affermarono il loro sentimento a produrre la reazione di chi si sentì offeso e minacciato nelle sue credenze, smascherato nelle  frustrazioni di una vita senza felicità, fondata sulla compressione della propria voglia di vivere e di vivere le proprie emozioni. I sentimenti repressi di un popolo intero esplosero in un quel cozzo violento.

Fausto e Serse Coppi
Era di poche e impacciatissime parole Coppi. Il fratello Serse, al primo deflagrare pubblico dello scandalo, imbarazzatissimo, chiuse la porta della camera d’albergo dopo un tappa e tentò di  usurpare la parte del fratello maggiore per richiamarlo ai doveri e alle responsabilità. Lui lo fece parlare e poi seppe rispondere solo “ xè la dona più bela del mondo”
Racconta il figlio Faustino che la madre diceva sempre di non essersi mai seduta a tavola nella sua brevissima vita con Coppi senza che lui gli spostasse la sedia per farla sedere. Anche qui, polarità opposte: un pudore contadino ed una eleganza autentica di costumi da aristocrazia. Non aveva certezze se non quelle che gli venivano da quel che provava, Coppi. La sua frase in epigrafe del libro dice tutto: “In Italia purtroppo contano le apparenze. In Italia bisogna saper mentire. In Italia non esitano a buttarti nel fango se sbagli come può sbagliare un uomo.”

Giulia Occhini e Fausto morto con una suora che osserva
Il personaggio di lei, già da sola, letterariamente parlando, è una miniera. Perché è un personaggio anche quello polarizzato. In bianco e nero.
La bellezza, l’eleganza, il coraggio da eroina romantica, la fragilità davanti alla persecuzione mediatica e giudiziaria.
Ma anche l’arroganza di certe risposte, che la resero antipatica a tanti; e la stessa brutalità con cui dichiarava i suoi sentimenti e difendeva le sue scelte. Persino oltre i limiti del sostenibile. 

Arrivò a dire (e lo racconta il figlio, che si è sempre sentito talmente amato, da non uscirne segnato e da poterlo rivelare anzi con un sorriso adorante e commosso sulle labbra): 
“Il Fausto moriva e io dicevo: Gesù, fammi morire i miei tre figli e lasciami il Fausto”.