sabato 23 marzo 2019

La straniera di Claudia Durastanti






Racconta infanzia, adolescenza e prima maturità tra Basilicata, Brooklyn, India, Londra e Roma (più vacanze) di figlia colta di genitori sordi e rumorosamente separati. 
Autobiografia romanzata dichiarata,  con il senso di estraneità come filo rosso. Resa con una scrittura agile, molto disinvolta.  Pregio maggiore, la freschezza. Il ritmo è veloce nel periodare e anche nel succedersi di scenari, fatti, personaggi e sensazioni. Ha il sapore un po’ da reportage giornalistico; il tono del narratore nonostante sia in prima persona sembra da testo di un documentario letto bene da una bella voce mentre scorre il filmato. Anche nell’obiettivo di creare e rinforzare suggestioni più che di spiegare (in un documentario ben fatto distrarrebbe troppo dalle immagini). E’ un giochino che piace molto a questa scrittrice quello di creare “effetti”. Ed è brava anche in questo. Possono non dispiacere neppure al lettore; a condizione che dietro ci sia poi sostanza (qui non c’è il filmato da guardare). E non sempre è così in questo libro. A volte le frasi a effetto nascondono solo cortocircuiti di senso, imprecisione  e confusione. Le pagine migliori sono  quelle americane. Anche quelle sul rapporto tra lei,  la madre sorda e la musica sono belle. 

Si capisce  che possa essere una buona  lettura, per chi è appassionato o anche solo ben disposto verso i romanzi autobiografici. Ha una sua originalità, che non è solo stilistica. Il soggetto è di per sé piuttosto inconsueto: la disabilità (molto ben giocata nel racconto),  una famiglia, una vita ed una testa parecchio movimentate, in tutti i sensi.  Diverso se si è refrattari al genere. Lei scrive che l’autobiografia è “la bastarda dei generi letterari”. È vero che “abbassa la soglia...a rifugiati, donne, disabili, sopravvissuti all’Olocausto, sopravvissuti a qualsiasi cosa”, ma solo perché è il ground zero del romanzo. E a risalire da lì, bisogna essere molto più che solo bravi, per costruirci sopra un buon romanzo.

Fatto sta che  in questo caso lo sdipanarsi delle piccole cronache famigliari, dei fatterelli di vita vissuta fa spesso sbadigliare. L’autoreferenzialità narcisa  senza veli che è implicita qui come in  ogni scrittura di questo genere, ma che si finge di dissimulare (concettualizzando e sminuendosi, autodenunciando inadeguatezze e intellettualizzando, esponendo sofferenze in chiave antropologica ecc.) innervosisce.  Gli “i remember”, per quanto sofferti e raccontati con la disincantata ironia e il malinconico sorriso di chi un po’ si è scafata e nella scrittura ha trovato la misura giusta del distacco, producono insofferenza. Persino più di quelli più o meno falsamente nostalgici, scritti con soave candore da chi finge di essere rimasto attaccato al ricordo del ciuccio, come un inconsapevole angioletto. Quindi, pur riconoscendone i pregi, gli scavallamenti e i riaccavallamenti di gambe in corso di lettura possono diventare vorticosi. 
Però, siamo arrivati a finirlo. E, onore al merito (di lei, ma anche nostro), è già abbastanza.

Ps) I capitoli finali, quelli dello sposo perduto, se ce li avesse risparmiati saremmo stati grati. Un inutile, crudele, reciproco infierire.