Per giudicare con onestà questo romanzo bisogna liberarsi delle
aspettative esagerate di cui l’autore è e si è circondato. Gli echi sudisti faulkneriani (evidenti), quelli western alla McCarthy e anche quelli
pulp sono echi appunto; che
risuonano nello stile e soprattutto nell’ambientazione (colore, polvere,
incendi, sangue e altro ancora). Sono usati bene e con un buon effetto, ma echi sono e non altro. Spessore e visione di
personaggi e fatti niente hanno a che vedere. Mille miglia lontani siamo.
Anche sullo stile, oltre gli echi non andrei. Lo scarabookkiante
ha pensato più al barocco leccese
e della Magna Grecia che alle radici bibliche e allo
sperimentalismo dei giganti della letteratura sudista americana. Più Lagioia
che americani insomma. Ed è roba buona anche quella: se la letteratura di
genere italiana crescesse tutta fino a questi livelli di coraggiosa ambizione e anche di
resa sarebbe un’ottima cosa.
Detto questo, è una bella storia, raccontata in modo
intelligentemente movimentato, con una buona geometria della trama e dell’architettura del
racconto. E con il merito di
descrivere un pezzo di malavita organizzata italiana, quella pugliese appunto,
che viene a torto sottovalutata e trascurata, salvo poi ritrovarsi il Far West
sul Gargano, come in questi giorni. Ecco, per capire con la pancia oltre che con
la testa quella roba lì, questo romanzo è un’ottima lettura.
Per apprezzarlo bisogna entrare in sintonia con la vena immaginifica, sfrenata e
spericolata nella produzione di metafore e nell’aggettivazione. A chi non piace
potrebbe mettere il nervoso, ma può anche risultare stimolante. A tratti porta
ad esiti di pregio vero.
Quel che è sicuro è che non ci si annoia e ci si diverte
anche. Con quel che mette in vetrina quest’anno nei vari premi estivi la letteratura italiana, mi pare già abbastanza.