Gadda maturò l'idea di questo libro sotto la spinta della
paura e della rabbia. Aveva dato credito a Mussolini inizialmente. Per via
dello "spirito di Caporetto", che la terribile esperienza della
guerra raccontata nel bellissimo Giornale di guerra e di prigionia gli aveva
insufflato. E anche per un innato bisogno di rassicurazione e di protezione. Poi
si era allontanato. Però, alla vigilia della liberazione, lui che viveva di
paure, che aveva l'ossessione della minaccia, temeva, se non l'epurazione, di
essere additato. E insieme bolliva di rabbia per esserci cascato. Ed era
incazzato perché sentiva di aver paura. E poi lo era ancor di più per esserlo
con uno come Mussolini (segue la più fantasiosa sfilza di epiteti che si
possano appioppare).
Ne venne fuori uno sfogo, un'invettiva di una violenza
furibonda, disperata. Gliela bocciarono per troppa volgarità. Poi lui passò ad
avere un'altra paura, quella di aver esagerato. E si mise a tagliare, limare,
smussare. La nuova edizione di Adelphi ce la restituisce nella sua integrità.L'esplosione
linguistica con cui è scritta è da sciarada stromboliana di notte. Spettacolare
ed esilarante. Intanto, inventa, deforma, ripesca, adatta, mette in
cortocircuito pezzi di vocabolari e se ne fabbrica un altro, con le sue regole,
una sua precisione, una sua rigorosa esattezza di significati. Questo c'è in
tutto quello che ha scritto Gadda, persino nell'ordine di servizio che scrisse
per i radiocronisti quando lavorava in Rai (bellissimo), ma qui è tutto
caldissimo, tutto allo stato lavico. Aspro, tecnicamente difficile da
avvicinare, ai limiti del respingente; ma, ad avvicinarsi, con lentezza e
cautela, per non perdere le sfumature (lì sta il piacere estremo), di una
potenza abbagliante.
Occhio però a non farsi bruciare il senso.
Gadda era un trasfiguratore, un fingitore. Nascondeva, come
pochissimi hanno saputo fare, se stesso e le cose che scrivendo scopriva di se,
di noi e del mondo. Osservava con un occhio millimetrico per allenamento
professionale, spietato per patologica sensibilità, assistito da una cultura
filosofica e psicologica insospettabile in un ingegnere e anche in un
letterato. Il suo vocabolario soprattutto a questo serviva. Non era bello e
basta. Rispondeva con efficacia tecnica, ingegneresca, oltre che ad una esigenza
di sostanza e di precisione anche ad un bisogno di nascondersi. Obbediva al
"lasciatemi in ombra" che era il suo Primo Comandamento.
Dentro al pamphlet politico colto e in lingua ha messo un
trattato sul narcisismo, il male del secolo, di cui anche lui era afflitto. Nei
suoi appunti preparatori, nelle bozze, nella versione originale esce fuori
ancor di più. Parla di sé e parla di noi. Parla di erotismo e di psicologia
applicata alle folle e alle donne (le marieluise), al potere politico e al
militarismo, al carrierismo, alle piccinerie che fanno piccola la borghesia
italiana (quasi tutta). Parla di un pezzo fondamentale e peculiare della
personalità, del modo di funzionare delle menti dominante nel suo e nel nostro
tempo (sono impressionanti per acume un pezzo sui giornali e uno che sembra
cucito sulla psicologia sociale dei moderni social). E parla sotto la
mascheratura del pamphlet politico delle sue pulsioni più profonde; che aveva
imparato in parte a sublimare, controllare, canalizzare e mettere a frutto. E
soprattutto, appunto, a nascondere. In questa riedizione si può trovare
ampliato e commentato tutto questo, in tutta la sua meticolosa articolazione,
sotto lo strato di fuoco vivo fatto di sboccataggini colte, di insulti poetici,
di misoginia sensuale, di crudeltà pedagogica, di misantropia empatica.
Gadda era un buono e come tutti i veri buoni, alla bisogna,
cattivissimo, feroce, intollerante. Per rendere l'idea (e perché troppo è
piaciuto allo scarabookkiante) copio la mezza paginetta in cui parla della
esibizione "narcissica" del lutto. Argomento difficile, delicato. Lui
guarda una vedova di guerra nerovestita, con persino la collana di perle nera,
seduta al ristorante tra tre militari, presumibilmente commilitoni del marito
morto in guerra. La scena la definisce "autoesibizione scardinata dal
climaterio, oltreché dalla perdita del su' mastio". E così la descrive:
"L'idea di portare al collo i testicoli affumicati del
marito, ammetto anche la sia una idea logica, nell'ethos di una tribù nana
dell'alta valle del Bomocandi, o dell'impluvio del lago Alberto: ma per una
femina di queste nostre qua d'un quintale, conglobate e impolpettate nella
«civiltà millenaria» e «nella storia augusta di Roma», date retta l'è una idea
bertolaccia. Pranzando un giorno sul terrazzo della casina Valadier un certo
pranzo unto con certi messeri micamal tosti di fuorivia, ch'io non ne azzeccavo
una sillaba, c'era a un tavolino da presso, con tre ufficiali tra di marina e
di Genova, una vedova di quelle proprio da 381: enorme: nera come una
locomotiva: però con du' occhi strofinati rossi, velata e pallata di nero. Una
scrofona di litantrace con que' bargigli neri del dindo defunerato appesi a
i'collo, ma ritinti prima nel lustro nero delle scarpe: che la trombettava giù
certe sparate di naso tra e' due marinai e 'l cavallerizzo sopra una catinella
di spaghetti all'amatriciana, in sul fortore afro e in sul pizzicore de i'
pecorino, mamma mia: ch'era credibilmente quello e non altro a farle tanto
brodare la vedovanza.
Che il naso, beninteso, Io sparava solo a quando a quando:
sicché nelle more di quelle fomidabbili ttrombazzate le sopravvanzava in
aggetto dalla cascata dei veli neri, tutto lucido e rubizzo come una cornioIa:
a non dir meglio. E lei frattanto dietro al grascio della cotenna, ch'erano un
dito mignolo grosse, ci buttava giù certe pazze sorsate, con certe schioccate,
poi, di lingua, di un certo Frascati frascatano da far pisciare l'anima a
Semiramide. Questo è molte volte, il lutto. Il morto giace e la viva si dà pace.
E trinca."