lunedì 7 agosto 2017

Eros e Priapo di Carlo Emilio Gadda



Gadda maturò l'idea di questo libro sotto la spinta della paura e della rabbia. Aveva dato credito a Mussolini inizialmente. Per via dello "spirito di Caporetto", che la terribile esperienza della guerra raccontata nel bellissimo Giornale di guerra e di prigionia gli aveva insufflato. E anche per un innato bisogno di rassicurazione e di protezione. Poi si era allontanato. Però, alla vigilia della liberazione, lui che viveva di paure, che aveva l'ossessione della minaccia, temeva, se non l'epurazione, di essere additato. E insieme bolliva di rabbia per esserci cascato. Ed era incazzato perché sentiva di aver paura. E poi lo era ancor di più per esserlo con uno come Mussolini (segue la più fantasiosa sfilza di epiteti che si possano appioppare).

Ne venne fuori uno sfogo, un'invettiva di una violenza furibonda, disperata. Gliela bocciarono per troppa volgarità. Poi lui passò ad avere un'altra paura, quella di aver esagerato. E si mise a tagliare, limare, smussare. La nuova edizione di Adelphi ce la restituisce nella sua integrità.L'esplosione linguistica con cui è scritta è da sciarada stromboliana di notte. Spettacolare ed esilarante. Intanto, inventa, deforma, ripesca, adatta, mette in cortocircuito pezzi di vocabolari e se ne fabbrica un altro, con le sue regole, una sua precisione, una sua rigorosa esattezza di significati. Questo c'è in tutto quello che ha scritto Gadda, persino nell'ordine di servizio che scrisse per i radiocronisti quando lavorava in Rai (bellissimo), ma qui è tutto caldissimo, tutto allo stato lavico. Aspro, tecnicamente difficile da avvicinare, ai limiti del respingente; ma, ad avvicinarsi, con lentezza e cautela, per non perdere le sfumature (lì sta il piacere estremo), di una potenza abbagliante.

Occhio però a non farsi bruciare il senso.

Gadda era un trasfiguratore, un fingitore. Nascondeva, come pochissimi hanno saputo fare, se stesso e le cose che scrivendo scopriva di se, di noi e del mondo. Osservava con un occhio millimetrico per allenamento professionale, spietato per patologica sensibilità, assistito da una cultura filosofica e psicologica insospettabile in un ingegnere e anche in un letterato. Il suo vocabolario soprattutto a questo serviva. Non era bello e basta. Rispondeva con efficacia tecnica, ingegneresca, oltre che ad una esigenza di sostanza e di precisione anche ad un bisogno di nascondersi. Obbediva al "lasciatemi in ombra" che era il suo Primo Comandamento.

Dentro al pamphlet politico colto e in lingua ha messo un trattato sul narcisismo, il male del secolo, di cui anche lui era afflitto. Nei suoi appunti preparatori, nelle bozze, nella versione originale esce fuori ancor di più. Parla di sé e parla di noi. Parla di erotismo e di psicologia applicata alle folle e alle donne (le marieluise), al potere politico e al militarismo, al carrierismo, alle piccinerie che fanno piccola la borghesia italiana (quasi tutta). Parla di un pezzo fondamentale e peculiare della personalità, del modo di funzionare delle menti dominante nel suo e nel nostro tempo (sono impressionanti per acume un pezzo sui giornali e uno che sembra cucito sulla psicologia sociale dei moderni social). E parla sotto la mascheratura del pamphlet politico delle sue pulsioni più profonde; che aveva imparato in parte a sublimare, controllare, canalizzare e mettere a frutto. E soprattutto, appunto, a nascondere. In questa riedizione si può trovare ampliato e commentato tutto questo, in tutta la sua meticolosa articolazione, sotto lo strato di fuoco vivo fatto di sboccataggini colte, di insulti poetici, di misoginia sensuale, di crudeltà pedagogica, di misantropia empatica.
Carlo Emilio Gadda
Gadda era un buono e come tutti i veri buoni, alla bisogna, cattivissimo, feroce, intollerante. Per rendere l'idea (e perché troppo è piaciuto allo scarabookkiante) copio la mezza paginetta in cui parla della esibizione "narcissica" del lutto. Argomento difficile, delicato. Lui guarda una vedova di guerra nerovestita, con persino la collana di perle nera, seduta al ristorante tra tre militari, presumibilmente commilitoni del marito morto in guerra. La scena la definisce "autoesibizione scardinata dal climaterio, oltreché dalla perdita del su' mastio". E così la descrive:

"L'idea di portare al collo i testicoli affumicati del marito, ammetto anche la sia una idea logica, nell'ethos di una tribù nana dell'alta valle del Bomocandi, o dell'impluvio del lago Alberto: ma per una femina di queste nostre qua d'un quintale, conglobate e impolpettate nella «civiltà millenaria» e «nella storia augusta di Roma», date retta l'è una idea bertolaccia. Pranzando un giorno sul terrazzo della casina Valadier un certo pranzo unto con certi messeri micamal tosti di fuorivia, ch'io non ne azzeccavo una sillaba, c'era a un tavolino da presso, con tre ufficiali tra di marina e di Genova, una vedova di quelle proprio da 381: enorme: nera come una locomotiva: però con du' occhi strofinati rossi, velata e pallata di nero. Una scrofona di litantrace con que' bargigli neri del dindo defunerato appesi a i'collo, ma ritinti prima nel lustro nero delle scarpe: che la trombettava giù certe sparate di naso tra e' due marinai e 'l cavallerizzo sopra una catinella di spaghetti all'amatriciana, in sul fortore afro e in sul pizzicore de i' pecorino, mamma mia: ch'era credibilmente quello e non altro a farle tanto brodare la vedovanza.

Che il naso, beninteso, Io sparava solo a quando a quando: sicché nelle more di quelle fomidabbili ttrombazzate le sopravvanzava in aggetto dalla cascata dei veli neri, tutto lucido e rubizzo come una cornioIa: a non dir meglio. E lei frattanto dietro al grascio della cotenna, ch'erano un dito mignolo grosse, ci buttava giù certe pazze sorsate, con certe schioccate, poi, di lingua, di un certo Frascati frascatano da far pisciare l'anima a Semiramide. Questo è molte volte, il lutto. Il morto giace e la viva si dà pace. E trinca."