Romanzo che colpisce prima di ogni altra cosa per un candore spudorato e temerario. Poi per la potenza visionaria, cupa, con pochi confronti (e tutti altissimi). Infine, è scritto con la prosa che forse a qualche fortunato ogni tanto deve essere dettata personalmente dal Dio delle parole.
Leggerlo è di sicuro un’impresa. Per tante ragioni: per la mole; per le altezze vertiginose cui spinge il pensiero del lettore; per le immersioni abissali, oniriche e allucinatorie, a cui lo costringe; per le emozioni a tratti strazianti che gli trasmette; per la tristezza dell’ambientazione in cui lo trascina (“Bucarest è la città più triste del mondo”); soprattutto per la paura ancestrale che tutti ci portiamo dentro per il fatto stesso di vivere, a cui vogliamo sfuggire e che Caratarescu ci costringe invece a guardare in faccia. D’altronde, è il prezzo che si paga per accedere alla possibilità di gettare lo sguardo in modo per l’appunto spudorato e temerario dentro e oltre i confini della condizione umana, alle frontiere della riflessione contemporanea sul senso dell’esistere. Non sono occasioni che capitano spesso.
Il professore, protagonista del romanzo, vaga nelle quasi mille pagine tra la sua casa misteriosissima, la sua scuola squallidissima, le periferie e i luoghi che lo attirano dentro un enigma, promettendogli una risposta alla addomanda delle domande. E intanto vive la sua vita di sogni, di visioni e di allucinazioni e reinterpreta i ricordi annotati nel suo diario di una infanzia triste e di una vita banale, vissute in una sostanziale solitudine. Quello che scopre è che al di là della realtà (che nella visione di Cartarescu ha contorni indefiniti e in fondo conta poco o niente; è poco più che un accidente) c’è qualcosa o qualcuno, in un’altra dimensione, per noi irraggiungibile, che si nutre del nostro dolore e della nostra disperazione mentre ci dimeniamo nella ricerca di una via di fuga.
E nello stesso tempo, nella nostra mente, in mezzo a noi, mentre siamo traghettati dall'essere al nulla, crediamo di avvertire l'esistenza di Qualcosa che manda segnali difficili da interpretare. Ecco, il compito del libro, della letteratura questo è, secondo Cartarescu. Risolvere l’enigma, ricomporre il puzzle. E con questo forse velleitario, ma irrinunciabile obiettivo, la vita del protagonista, scrittore mancato e oscuro professore in una scuola di periferia (una scuola che sta a metà strada tra l’ospedale del M*A*S*H di Altman ed un lager), viene ripercorsa in un doppio piano narrativo. Da una parte reinterpretando i ricordi e i sogni appuntati nel mitico diario e dall’altra dipanando una trama ai limiti del surreale ed anche oltre, nel tempo presente.
In questo tentativo i sogni sono fondamentali (e spesso riempiono pagine bellissime) e formano un repertorio interminabile. Confinano con le allucinazioni, che irrompono nella realtà è si confondono con essa; poi ci sono le illuminazioni, i sincronismi, le coincidenze, i rimbalzi di senso e significato nella narrazione del presente. Il tutto forma un caleidoscopio di immagini, per lo più di incubi, una galleria di orrori. La condizione indifesa dell’infanzia esposta a tutte le paure e a tutte le angherie, la sedia del dentista, la siringa degli infermieri, l’asettica indifferenza dei medici, la violenza degli educatori, le paure dei genitori, la violenza del regime comunista, il grigiore povero e disperato di Bucarest e delle sue desolate periferie, i luoghi della morte (gli obitori, i cimiteri, le discariche, le fabbriche semiabbandonate), la brutale logica della irrigimentazione scolastica, la violenza bruta degli ospedali, il sanatorio le frustrazioni dell’umanità alienata dal lavoro, dal senso di inutilità e dalla povertà. La testimonianza che Cartarescu lascia del regime dì Ceausescu, probabilmente il più oscurantista e ottuso dell’epoca sovietica, é veramente terribile, soprattutto in quanto vista con gli occhi dei bambini, che di quel regime sono state tra le vittime maggiori.
Nel libro, la solitudine è vista come un dono e insieme come un'autocondanna; il corpo come una prigione, un nemico imperscrutabile ed estraneo. Nonostante questa malinconica cupezza di fondo e una certa pesantezza di alcune pagine, è un libro accogliente, con personaggi a volte splendidi (l’uomo che gli vende la casa, Florabella e il suo nonno gigante e “addomesticatore di sogni”, la stessa Irina, per citarne solo qualcuno), descrizioni fascinose e una sapiente alternanza di trame e scenari narrativi. L’idea del “manifestanti” contro il dolore, la vecchiaia, la morte, la dissoluzione dell’essere nel nulla ha proprio la bellezza del candore spudorato di cui si diceva. Se ne può sorridere, ma che cosa altro fa da sempre l’umanità se non “manifestare” il suo rifiuto della morte?