martedì 23 luglio 2019

Ninfa dormiente di Ilaria Tuti





Un  buon giallo e anche qualcosa in più. Perché ha originalità di trama e dà stimoli di approfondimento inconsueti nel genere. Ha anche difetti gravi però. Cominciamo da quelli.   
Il primo e il più grosso è nella prosa, che tende troppo spesso a ridondare, ad enfatizzare. Negli aggettivi, nelle sottolineature, nel ricercare effetti emotivi. 

Ilaria Tuti
Il secondo è nella struttura. troppo carica. C’è praticamente un colpo di scena o presunto tale ad ogni capitolo (e sono per lo più capitoli brevi). Punta al grande pubblico e si capisce. Ma non  avrebbe bisogno di esagerare per essere interessante e tenere il lettore attaccato; alla fine esagerare ha il solo effetto di stancare. E la tendenza a metterla sul melodramma e sulle mozioni del cuore appesantisce e infastidisce. Dovrebbe asciugare quel che scrive di una parte almeno degli umori, la Tuti; sia  dello stile, che delle emozioni: grondano da tutte le parti e sono continuamente ribadite e grassettate. 

Il terzo difetto sta anche quello sul versante del “troppo”: trama troppo complessa, che diventa zigzagante, con il tema principale che fa troppe giravolte e si gonfia di un po’ di tutto (analisi psicologica, antropologia, esoterismo, guerra partigiana e altro ancora). Mette a cuocere troppi temi. E alla fine la sensazione di confusione è forte, soprattutto nel finale. Un po’ più di linearità  avrebbe giovato.

Campanile di S. Martin a Resiutta
Nonostante questo (e veniamo ai pregi) anche dal punto di vista narrativo, la qualità complessiva è  buona. Soprattutto, il soggetto della storia è bello. Ed è molto originale. Più del suo primo romanzo, che era già notevole sul versante del soggetto. Anche qui è  l’ambientazione la cosa più riuscita; ed è fondamentale nell'economia del racconto, come fosse un personaggio principale. Un Friuli cupo e triste: quello delle montagne e del confine verso la  Slovenia, reso con realismo, con empatia, ma il cui fascino si nutre soprattutto di ombre. Chi lo conosce lo riconosce. Pieno di insidie nascoste, di luoghi oscuri e di silenzi, nelle case, nelle montagne, nei boschi e anche nei caratteri di chi ci vive.  Più che un paesaggio viene fuori molto bene una sorta di genius loci. A me sembra il pregio migliore del romanzo.


Tutti, come le montagne, i boschi, i paesi hanno qualcosa di segreto che per ragioni, a volte lecite a volte no, vogliono tenere nascosto. Una forma di oscurità e di silenzio che prima di essere delle parole sono un silenzio e un’oscurità dell’anima, di menti educate a non fidarsi, a tenersi nascoste le cose (anche ai propri stessi occhi), in  sintonia adattativa con la propria storia ereditata, oltre che con l’ambiente.  Abitano un territorio che è di severissima montagna e di confine, un tempo severissimo anche quello. E al confine stanno anche tra la bugia e la verità, in una sorta  di zona grigia, un’enclave anche quella, come la Val Resia. Sono gelosi di identità e di autonomia soprattutto per sfiducia e per paura, per la percezione costante di una minaccia.

Ponte del Diavolo di Cividale
Il romanzo è popolato di gente così: che non dice bugie, senza mai dire la verità. Persino sotto l’apparenza della schiettezza, nasconde intenzioni e segreti; forse persino davanti a se stessi. Lo fa soprattutto tacendo, coprendo il vero senso delle cose col silenzio. Persino gli investigatori in questo romanzo sono così. Lasciano agli altri il compito, brancolando nel buio, di ricostruire la loro storia. Che è piuttosto tormentata, peraltro. Il gioco è farli sbagliare e poi pesarne e mettere a frutto gli errori. Tutta la relazione tra la commissaria Battaglia (gran personaggio) e il suo aiutante Marini è da manuale di psicologia. Correggono il ricordo dei fatti  (propri e altrui) spostando le tessere del mosaico nel tempo e nelle spazio, a volte di misure infinitesime, ma sufficienti a modificarne il significato e soprattutto a nascondere la sofferenza. Più che aggiungere, sottraggono. E comunque , senza introdurre veri e propri elementi di falso, l’effetto è comunque un oscurare, un celare. Sia che vogliano coltivare i propri sensi di colpa (è un romanzo in cui i personaggi grondano di sensi di colpa), sia che vogliano guarirne. 

Manipolando la  memoria (che, d'altronde, per la psicologia moderna, la Tuti lo dice, è sempre “ricostruttiva”) tirano fuori una rappresentazione ed un disegno che scambiano e spacciano per verità.  Questo gioco interpretativo sofisticato tra immagine e sostanza, tra realtà e apparenza, tra vero e falso è il lascito maggiore di questo libro, il suo elemento principale di fascino.
Dietro la bellezza della natura e dell’arte, protetta da questo  silenzio oscurante, dal non detto e dalle manipolazioni della memoria, nel sottobosco delle montagne, ma anche, metaforicamente, dell’opera d’arte e della mente,  si nasconde il Male. Un Male che viene reso con una tonalità horror,  diabolica, ma legata da un lato alla psicologia e dall'altra al territorio, con riferimenti che hanno anche quelli
una loro originalità e una loro non banale eleganza: il Ponte del Diavolo di Cividale, l’erba allucinogena detta “erba delle streghe”, la sonata “il trillo del diavolo" di Tartini (bellissima), il ritratto disegnato col cuore (una volta tanto, non solo in senso metaforico) da cui tutto inizia. Altro, anche per adeguarsi ai friulani della Val di Resia e dintorni, non è il caso di dire.