Un buon giallo e
anche qualcosa in più. Perché ha originalità di trama e dà stimoli di
approfondimento inconsueti nel genere. Ha anche difetti gravi però. Cominciamo da
quelli.
Ilaria Tuti |
Il secondo è nella struttura. troppo carica. C’è
praticamente un colpo di scena o presunto tale ad ogni capitolo (e sono per lo
più capitoli brevi). Punta al grande pubblico e si capisce. Ma non avrebbe
bisogno di esagerare per essere interessante e tenere il lettore attaccato; alla fine esagerare ha il
solo effetto di stancare. E la tendenza a metterla sul melodramma e sulle
mozioni del cuore appesantisce e infastidisce. Dovrebbe asciugare quel che
scrive di una parte almeno degli umori, la Tuti; sia dello stile, che delle emozioni: grondano da
tutte le parti e sono continuamente ribadite e grassettate.
Campanile di S. Martin a Resiutta |
Nonostante questo (e veniamo ai pregi) anche dal punto di
vista narrativo, la qualità complessiva è
buona. Soprattutto, il soggetto della storia è bello. Ed è molto
originale. Più del suo primo romanzo, che era già notevole sul versante del
soggetto. Anche qui è l’ambientazione la
cosa più riuscita; ed è fondamentale nell'economia del racconto, come fosse un
personaggio principale. Un Friuli cupo e triste: quello delle montagne e del
confine verso la Slovenia, reso con
realismo, con empatia, ma il cui fascino si nutre soprattutto di ombre. Chi lo
conosce lo riconosce. Pieno di insidie nascoste, di luoghi oscuri e di silenzi,
nelle case, nelle montagne, nei boschi e anche nei caratteri di chi ci vive. Più che un paesaggio viene fuori molto bene
una sorta di genius loci. A me sembra il pregio migliore del romanzo.
Tutti, come le montagne, i boschi, i paesi hanno qualcosa di
segreto che per ragioni, a volte lecite a volte no, vogliono tenere nascosto.
Una forma di oscurità e di silenzio che prima di essere delle parole sono un
silenzio e un’oscurità dell’anima, di menti educate a non fidarsi, a tenersi
nascoste le cose (anche ai propri stessi occhi), in sintonia adattativa con la propria storia
ereditata, oltre che con l’ambiente.
Abitano un territorio che è di severissima montagna e di confine, un tempo severissimo anche quello. E al
confine stanno anche tra la bugia e la verità, in una sorta di zona grigia, un’enclave anche quella, come
la Val Resia. Sono gelosi di identità e di autonomia soprattutto per sfiducia
e per paura, per la percezione costante di una minaccia.
Ponte del Diavolo di Cividale |
Manipolando la
memoria (che, d'altronde, per la psicologia moderna, la Tuti lo dice, è sempre “ricostruttiva”) tirano fuori una rappresentazione ed un disegno che
scambiano e spacciano per verità. Questo gioco interpretativo sofisticato tra
immagine e sostanza, tra realtà e apparenza, tra vero e falso è il lascito
maggiore di questo libro, il suo elemento principale di fascino.
Dietro la bellezza della natura e dell’arte, protetta da
questo silenzio oscurante, dal non detto
e dalle manipolazioni della memoria, nel sottobosco delle montagne, ma anche,
metaforicamente, dell’opera d’arte e della mente, si nasconde il Male. Un Male che viene reso
con una tonalità horror, diabolica, ma
legata da un lato alla psicologia e dall'altra al territorio, con riferimenti
che hanno anche quelli
una loro originalità e una loro non banale eleganza: il
Ponte del Diavolo di Cividale, l’erba allucinogena detta “erba delle streghe”,
la sonata “il trillo del diavolo" di Tartini (bellissima), il ritratto disegnato col cuore
(una volta tanto, non solo in senso metaforico) da cui tutto inizia. Altro,
anche per adeguarsi ai friulani della Val di Resia e dintorni, non è il caso di dire.