Una cosa è sicura. Questa scrittrice ha degli ottimi fondamentali: ritmo, precisione nel dare nome alle cose e nel descrivere fatti, ambienti e personaggi, cura nell'accompagnare il lettore dentro il mondo che ha inventato, aggettivazione sobria e ineccepibile. Insomma c’è tutto quello che fa una ottima prosa. Se non fosse così, questo libro, per il soggetto su cui si incentra, sarebbe difficile da finire. E invece ti fa prigioniero.
Racconta di una donna giovane e bella, ricca e sola, che
decide di mitragliarsi di sostanze che la facciano dormire per tutto il tempo,
salvo quello strettamente indispensabile per sopravvivere. Da cui, una
successione di risvegli e riaddormentamenti artificiali, con dettagli maniacali
dei sofisticatissimi cocktails di farmaci e degli imprevedibili effetti che
danno. Obiettivo: un reset mentale che la ripulisca dal dolore di una tripla
perdita e che le restituisca la voglia di vivere. Nel frattempo, dorme. Unici
intermezzi sociali le conversazioni con un’amica e con una psichiatra, due
personaggi tratteggiati con grande sapienza. E poi le uscite per
rifornirsi in un negozio di egiziani. Intanto riaffiorano i ricordi e, anche
lì, le figure dei genitori sono scolpite con grande efficacia. Azzeccata anche la tonalità della voce narrante, in prima persona: una voce che nonostante la disperazione resta asciutta, venata di una ironia acida, distruttiva sì, ma che lascia trasparire bene non solo la fragilità e il dolore, ma anche una soffocata voglia di uscirne.
C'è soprattutto che il racconto riesce a trasmettere in profondità al lettore il clima,
mentale e relazionale, che la protagonista crea dentro e attorno a se; un clima
claustrofobico e tossico. Lo contagia di un vapore da cupio dissolvi.
Poi, va aggiunto che se fosse un film sarebbe da Oscar per la
fotografia. La mostra dei cani imbalsamati filmata in notturna è da grande cinema. Ma anche le
istantanee dell’appartamento quando riapre gli occhi sono da incorniciare.