sabato 28 luglio 2018

La morte a Venezia di Thomas Mann




Uno dei libri  da  rileggere, ogni tanto. Fosse anche solo per guardare cose che ti erano sfuggite o che non avevi apprezzato come meritano. Per esempio il modo in cui  Mann prepara e preannuncia fin nelle prime pagine la trappola  in cui manda a finire il povero, rigoroso Von Aschenbach. Solo la vita è capace di prepararti trappole così, mischiando le nostre debolezze con casualità e sincronismi che sembrano essere organizzati da una mente cattiva. E la trama, come la vita a volte, è così perfida e sicura che la trappola comunque funzionerà da potersi permettere anche di lasciare tutta una serie di messaggi premonitori. Che potresti cogliere. E sottrarti. Il  professore infatti ci prova. Ma poi ci ripensa, come capita a tutti. Sono peraltro tutti narrativamente bellissimi questi segni anticipatori: dal vecchio col naso camuso che esce dal cimitero e poi sparisce della prima pagina, al viaggio “sbagliato” in Istria, al gondoliere imbroglione fino alla clessidra in cui la sabbia comincia a vorticare delle ultime. 
Poi, certo,  ci sono  il volto mefitico e diabolico di Venezia reso così bene dal film di Visconti; l’incombere della morte e la propensione  da incoscienti a giocarci che la passione induce; la riproposizione del mito di Apollo e Giacinto; la visione mistica della bellezza come veicolo verso una illusione di trascendenza, come una sorta di disvelamento miracoloso del Divino e il rapporto alchemico, ambiguo e pericoloso, della conoscenza e dell’arte  con l’eros, con le pulsioni. 
Roba magmatica, potentissima, raccontata in poche pagine, con la solidità della prosa di Mann. E non bisogna scordarsi che siamo alla vigilia della prima Grande Guerra, mentre il suo mondo stava per disfarsi definitivamente. Leggere questa roba vale come poter sentire a distanza di un secolo il polso di un moribondo e potergli ancora misurare la febbre; perché si entra attraverso il sangue dei sentimenti nel corpo debilitato dell’Impero alla vigilia del dissolvimento.
Stavolta però più di tutto  a colpirmi è stato proprio il tema del rapporto tra Eros e creatività. Qualcosa che confina da un lato con la bellezza divina e dall’altra con le pulsioni più abissali.  E in particolare mi riferisco a quella specie di effetto biochimico, da endovena tossica, che la passione genera e che induce il cervello umano a prodursi al massimo della sue potenzialità espressive. Una energia strabordante che porta anche il più comune degli individui e in una qualche forma, a offrire, al pubblico fatto di una sola persona, “lo spettacolo di arte varia di uno innamorato di te”. Il professor Aschenbach possiede l’arte della parola e sul rapporto tra l’eros e la parola ad un certo punto si può leggere una cosa così:
“Mai egli aveva sentito più soavemente la voluttà della parola, mai aveva così ben compreso che Eros è nella parola, come sentiva e capiva adesso durante le ore pericolose e squisite in cui, seduto al suo tavolino rozzo sotto la tenda, contemplando l’idolo e ascoltando la musica della sua voce, componeva a immagine della bellezza di Tadzio la sua breve dissertazione — quella pagina e mezzo di prosa altissima la cui purezza, nobiltà e vibrante energia doveva suscitare di lì a poco l’ammirazione universale. È certamente un bene che il mondo conosca soltanto la bella opera e non le sue origini, non le condizioni e le circostanze del suo sviluppo; giacché la conoscenza delle fonti onde scaturisce l’ispirazione dell’artista potrebbe turbare, spaventare, e così annullare gli effetti della perfezione. Ore singolari! Strana fatica snervante! Strano e fecondo accoppiamento dello spirito con un corpo!”