domenica 24 aprile 2016

Il Duca di Sant'Aquila: Gadda e la vita dissimulata


Tutta l'opera di Gadda  può essere letta come  una autobiografia dissimulata e romanzata.
Da quest'idea bisogna partire. Si dirà che in qualche misura è così per tutti gli autori. Ed è vero. Ma per Gadda il rapporto tra vita ed opera è  cosa piuttosto complicata. Andare a vedere come stanno le cose oltre ad essere interessante, aiuta molto a capire. Più forse che in molti altri casi.


Roscioni ne Il duca di Sant’Aquila  ricerca e racconta  i fatti biografici, le cose davvero accadute. Il tentativo è quello di  spiegare cosa c'è di vero e di reale dietro i richiami di Gadda alle "tempestose e terribili circostanze" della sua vita. Cerca di dare corpo storico e riscontri al clima famigliare dell’infanzia e della giovinezza, che nei romanzi viene descritto cupo e percorso da tensioni e sofferenze indicibili. Basti pensare a quello al cui centro ha messo il Gonzalo Pirobutirro de La Cognizione del dolore.
Cosa trova Roscioni?
Trova  che Gadda aveva una famiglia con una storia tutto sommato normale. Con le sue difficoltà, certo: economiche e  di rapporti. E  con le sue  debolezze, le sue tensioni, i suoi vizi caratteriali. Che ha dovuto subire la perdita prematura del padre, per un’improvvisa malattia; e poi del fratello, in guerra, dolorosissima. Ma è anche una famiglia con una  sua solidità di  risorse e di relazioni interne ed esterne; con una sua borghese dignità; animata da  valori forti come l'amore per la cultura, la spinta alla solidarietà, il culto del decoro e della dignità.

E si capisce presto che , forse,  la cosa più importante   non sono le vicende di vita  così come le può vedere uno storico o un critico letterario, col suo distacco, solo scovando lettere e testimonianze . Non contano insomma tanto i fatti in sé. Conta invece e moltissimo la narrazione che se ne fa Gadda. 
Così come per tutti noi, è come ce la raccontiamo, la nostra vita, che importa. Non cosa è stata “per davvero” secondo un osservatore esterno (e ammesso che il “per davvero” abbia un senso).

Per la vita di Gadda accanto alla realtà storica c’è  tutto un modo di sentirla, di interpretarla e infine ricostruirla che è prodotto della sua mente della sua sensibilità. Ne è lucidamente consapevole: la chiama "isteria storica" e la contrappone alla “realtà storica”. E quel modo di leggere gli eventi e di interpretarli, non per il fatto di essere “isterica” (cioè proveniente da un moto interiore e da una conformazione della mente) deve per forza esser vista come priva di una sua fondatezza, di una sua logica e di una sua verità. Anzi, per chi la scrive  e per noi che la leggiamo è l’unica che è vera; di sicuro è l’unica che conta, che produca effetti.
All'interno di questa rappresentazione espressionistica della realtà, Montale giustamente si chiedeva "se si possa parlare di causa o di effetto... Se veramente le cause producono l'effetto o è l'effetto che produce le cause". In altri termini, narrandosi la sua vita in quel certo modo, Gadda la sua vita, in qualche misura,  la determinò, le diede una sua impronta peculiare, ne indirizzò il corso. Soprattutto determinò la sua opera.

E allora la domanda diventa un’altraCosa c'è al centro di questo racconto di sé che si fa Gadda e di cui il biografo dà conto, mentre ci dice cosa ha trovato di documentato, di vero, di concreto? 
Adele Lehr Gadda

Di sicuro c’è la madre e poi più sfocate, sullo sfondo, le figure del  padre inetto, affettuoso, troppo presto scomparso e della sorella con cui ha rapporti soprattutto epistolari, finché non li romperanno del tutto. 
La madre, soprattutto, dunque. 
Nel libro di Roscioni esce fuori una figura complessa, con molti aspetti interessanti e a volte sorprendenti. Era una donna colta, intelligente, che ha lasciato segni di una intelligenza vivace e di una grande sensibilità. Era anche una  donna emotivamente refrattaria, compressa; molto decisionista e poco espansiva; molto assertiva e poco empatica. Che normava e imponeva, ma che era pochissimo disposta a comprendere e sostenere, tanto meno col calore di un abbraccio e della condivisione. 

Il rapporto che Carlo ha con questa madre per la verità dà l’impressione di essere una cosa che ha molto poco a che fare con il complesso di Edipo, come sostiene Roscioni;  e di avere invece molto a che fare con la fase evolutiva precedente a quella edipica, in cui incubano le sindromi narcisiste della personalità. Ma questi sono discorsi da lasciare alla competenza degli psicologi. Rispetto a questo nucleo centrale della sua sofferenza, la madre soprattutto, Gadda oscillava tra la drammatizzazione degli effetti, la ferocia delle accuse verso i genitori, l'orrore e il senso di colpa per il rancore che sentiva dentro e che lo portava alla fine ad una dolorosa, attonita paralisi dei sentimenti e della parola.

Gadda durante la Grande Guerra
Il Duca di Sant'Aquila è il nome dato a se stesso in un gioco infantile. Contiene  i prodromi del mito militare  e della  sua idea di patria. Ma dentro lo strano militarismo gaddiano oltre alle vaghe fantasie identitarie,  ci sono "da una parte la presenza di impulsi rigoristici, quasi ascetici; dall'altra l'assidua, insistente manifestazione di esigenze tecnico-funzionali...un suo peculiare, indefettibile pragmatismo". Le cose devono funzionare, insomma. Questo lo attraeva della organizzazione militare. E la sua assenza lo faceva arrabbiare, nel corso della sua esperienza di soldato.

Ma non è solo questo. Dietro c’è qualcosa di ben più decisivo e centrale. C’è una visione filosofica che permea  tutto il modo di vedere il mondo di Gadda. C’è l’esaltazione del senso del dovere ed in particolare del dovere di  tentare di ricondurre la complessità del mondo ad un ordine. Un ordine organizzato, che risponda a razionalità tecnica, a rigore, a precisione. E per riuscirci bisogna avere il culto della verità. Ed essere esatti, disciplinati, aderenti alle cose, scientificamente corretti. Non c’è altro da fare se si vuol tentare di trovare un'alternativa, un riparo al degrado e al caos che incombe, che ci circonda.

Epperò, dicotomicamente, Gadda è convinto che l'impresa è impossibile, che la precisione a lunga gittata nel ricostruire la catena delle cause e degli effetti nello spazio e nel tempo non ha nessuna possibilità di essere portata ad una qualche conclusione. Il mondo è troppo complesso, la catena delle cause e degli effetti porta troppo lontano, per essere padroneggiata dalla mente umana e dalle sue velleità ordinatrici. E così il senso del dovere, la tecnica, l’esattezza, la razionalità scientifica finiscono con l'essere usate in realtà per arrivare a dimostrare che l’impresa è impossibile, che non verremo mai a capo dello “gnommero”, dell'intreccio, dell’infinita complessità delle cose. 

Questo non abbassa neanche di un po’ la necessità di farlo. Perché l’assunzione di una responsabilità davanti alle cose è indispensabile, se si vuole sopravvivere conservando  una dignità umana. All’opposto, la  perdita di una finalità anche solo illusoria, produce il terribile effetto del decadimento, dello sfacelo. Un effetto, applicabile a tanti uomini e contesti umani, che lui descrive in un modo per l'appunto preciso, meticoloso: "Nulla vi era più di reale in loro, come in chi vivesse per automatismo. È questo forse il principio e lo stato di ogni dissoluzione morale. Il mondo appare allora come un rotolamento di effetti, e il suo contenuto è già stato enunciato fuori di noi: un'orrenda pietraia rovina giù senza fine. Ogni volere è smarrito. Non siamo che cose".

Trasferito in narrativa l'obiettivo impossibile di Gadda diventa quello di cogliere e risistemare in una rappresentazione il reale, scovando di ogni oggetto, personaggio, evento la precisa dinamica, la sua esatta collocazione nel contesto generale, fino alle più remote origini. Scriveva bene Cecchi: "Gadda è uno di quei pittori che fanno un capolavoro tenendo a modello un vecchio paia di scarpe. Nel fango che incrosta le afflitte tomaie sono iscritte in capillari geroglifici, come nei fregi di una piramide, le storie delle fatiche umane e delle sorti. E attraverso le buche della suola, ecco il  cielo con le lontanissime costellazioni che governano quelle fatiche e quelle sorti. È realismo anche questo: anzi è realismo di quello buono, di gran marca, a lunga portata."

Alla base  della sua stessa prosa, del suo stile espressivo, della sua lingua c'è questa esigenza di verità e di precisione.  Quel che viene definito il barocco di Gadda nasce da lì ed è tutto il contrario di un esercizio di sovrabbondanza compiaciuta, di esibizione di forme fine a se stessa. Viene dal puntiglio ingegneresco di dare una espressione millimetricamente esatta delle cose, a tutto tondo, in ogni dettaglio, cercando tutte le simmetrie e le corrispondenze esatte. Ed è  questa esigenza di esattezza che lo spinge a inventarsi una sua lingua. 
Mutua il linguaggio dei tecnici. Si appropria di termini delle lingue dei paesi dove ha vissuto. Prende dai vari dialetti le espressioni che funzionano meglio in un  determinato contesto. Il risultato finale è che resta rigorosamente fedele alle sue esigenze di completezza di espressione e di precisione, ma nella più bizzarra e personale delle rappresentazioni della realtà  e nella più spastica e contaminata deformazione della lingua. Il vero nocciolo della grandezza espressiva di Gadda sta tutto lì.

Il linguaggio di Gadda ha anche un’altra funzione, come rilevò meglio di tutti Pasolini: quella di fare da “schermo pudico” alle sue emozioni, di funzionare da strumento di difesa psicologica. E’ la dissimulazione dell’autobiografismo di cui si diceva all’inizio quella che viene realizzata anche attraverso la lingua, paradossalmente proprio ricercandone la precisione. Solo così d’altronde Gadda poteva raccontarsi e affidarsi agli altri, sentirsi parte di una comunità. I sui inquinamenti linguistici lui li chiamava “maccheronea” e diceva che sono “un immergersi nella comunità vivente delle anime”.
La spinta finalistica di "mettere in ordine il mondo" accomuna la sua attività di letterato e quella di ingegnere, fino alla realizzazione di utopie possibili: "L'idea di tesaurizzare la catastrofe, di tradurre la piena in chilowattore, di livellare il dramma idrografico nella proficua disciplina delle industrie"

L’esito finale però è identico. Sia nell'una che nell'altra attività dimostra a sé stesso prima che agli altri l'impossibilità di portare a compimento “l'opera”. Gadda è  l'autore per eccellenza delle opere letterarie incompiute. Ma è anche l’ingegnere che ha cambiato infinite volte e bruscamente lavoro. Ed è un uomo che ha continuamente cambiato abitazione, città, nazione, continente, senza legarsi in modo stabile con nessun essere umano e nessuna situazione. Che è periodicamente  caduto in lunghe fasi di ritiro, di conclamata misantropia, di abbandono di ogni progetto. 
Il suo eroe è Amleto. Lo cita, quando declama: "Quale disordine! E dovevo io nascere, per mettere a posto tutto ciò". Diceva che  Amleto è un "uomo invasato dalla missione ricostitutrice (d'una realtà morale del mondo)"... Un uomo in cui però dominano l'impotenza e l'abulia, "effetti della devastazione morale operata in lui dal delitto materno".  E tutto così torna a girare attorno alla figura della madre, al nucleo incandescente delle sue sofferenze.

La consapevolezza della sua vita  interiore è sempre presente, lucida. Gadda si guarda costantemente vivere. Si cerca negli occhi degli altri senza riconoscersi. E questo rinforza una rabbia sorda, che resta inespressa e di cui si sente colpevole. Da una parte ne cerca le radici e le ragioni  e dall'altra la traduce in un umorismo corrosivo verso sé e verso gli altri che si manifesta solo negli scritti. 
Scrive "Sono orribilmente depresso, solo...Cosa vuoi che ti dica di me? Sono sempre il Gaddus, sempre più balogio che mai, sempre più merluzzo, sempre più sconclusionato, svirgolato, sfessato, ma sempre più bilioso e pieno di invettive contro tutti.' La spietata e dolorosa coscienza, questo bisogno di vedersi, di rispecchiarsi  in Gadda è fortissimo, connaturato con le basi più profonde della sua personalità. E lo sa perfettamente: "Io vivo con la mia psiche, scusi la parola, un po' esterna alla pelle del suo proprietario, che son io; come l'elettricità che i fisici dicono si porti un po' al di fuori del conduttore (nello skean effectc), come il nimbo dei santi. Non ch'io sia santo, ma la mia psiche vuol star di casa un po' fuori del mio alloggio corporeo". 

Questa attenzione assorbita dalla fatica di guardarsi vivere aveva tra gli effetti anche quello di renderlo distratto,  assente rispetto alle conversazioni e ai rituali sociali; in realtà era  preoccupato da tutto, timoroso di apparire nella maniera sbagliata e di cadere nelle trappole che attribuiva alla furbizia degli interlocutori. Si sentiva perennemente sotto giudizio di una qualche entità esterna, di un immaginario accusatore al quale deve rendere conto, spiegarsi, giustificare. E da questa percezione nasceva una paura ossessiva e una forma di rabbia sorda, di irritazione costante. In realtà gli altri spesso ne parlano come di una figura soprattutto buffa, fuori posto, imbarazzata, mai disinvolta, mai a suo agio; e di un uomo esposto dalla sua ingenuità ad essere sempre vittima di scherzi.

L'umorismo irritato e irridente, spesso feroce di Gadda nasce quasi tutto dai suoi umori interiori, dalla sua umoralità. Chi lo ricorda ne parla come di un insofferente canzonatore. Sfornò battute epiche su Moravia, la Morante, Pasolini, il mondo del cinema, l'odiatissimo Foscolo (odiato per la mancanza di precisione, perchè gli imputa di sacrificare la verità alla retorica), tanto per fare qualche nome. Era insofferente verso il mondo intero, in particolare verso i rituali e gli intrattenimenti che secondo lui nascondevano ipocrisie, stupidità, meschinità, cattiverie. I suoi quadretti della borghesia lombarda, fotografata in modo ferocissimo a teatro, nei ristoranti, nei condomini vengono da questa spinta interiore. 
L’intolleranza canzonatoria che li anima è quella che non riusciva ad esprimere nella vita reale, perché andava in contrasto con la sua buona educazione da "signorino", da "principino". Una parte in commedia questa, che gli fu  imposta nel  copione famigliare,  dalla madre in particolare e di cui ha sempre parlato come di qualcosa che  gli procurava una in/sofferenza,  di un travestimento che lo teneva distante e fuori dal mondo. 

Il contrasto tra cattivi sentimenti e buona educazione determinava accelerazioni e frenate in tutti i suoi rapporti (con la sorella Clara per esempio, con il cognato, gli amici, i datori di lavoro, con le sue mitologiche pensionanti e via dicendo) lo rendevano goffo,  ridicolo persino, tra una esagerata cortesia esteriore, una sostanziale distanza emotiva e la violenta insolenza segreta, che viene fuori soprattutto nelle lettere e negli scritti letterari.  E viveva con l'ossessione di essere riconosciuto colpevole per questo e perseguitato. Il titolo dato al volume che raccoglie le sue interviste è una sua espressione e dice tutto.

Si nascondeva. E spesso risolveva il problema scappando. Aveva il mito della fuga (scarligà, diceva in milanese , cioè fuggire) e specialmente fuga dall'impegno sentimentale. Il racconto di Montale di quando scappò, passando dalla finestra al primo piano, dalla casa di una signora fiorentina che lo aveva ospitato con segreta concupiscenza divenne una leggenda comica.

Dietro c'è sempre quella ipersensibilità cosciente: "Miserabile io credo soprattutto di essere per l'eccessiva (congenita e continua) capacità del sentire, la quale implica uno incorreggibile squilibrio tra la realtà empirica e l'apprezzamento che il mio essere ne fa".

In conclusione, dal libro di Roscioni esce il ritratto di un uomo sofferente al di là di quanto sia possibile giustificare con la ricostruzione dei fatti della sua vita. C'è una molla psicologica iper reattiva che innesca una sua interpretazione dei fatti, della sua vita, un modo di vedersi che deforma e amplifica i dati della realtà, la ricostruisce secondo un copione interiore. E la sua opera è la trasfigurazione letteraria di questa percezione malata di sé.
Roscioni  dice che lo scrittore "è come l'ostrica, che solo se è malata genera la perla". Larga parte della migliore letteratura nasce da una matrice patologica. Nel caso di Gadda di sicuro è così.