E' un film del 1970, il penultimo di Vittorio De Sica, tratto dal romanzo di Giorgio Bassani, del 1962.
Vinse l'Oscar e L'Orso d'oro. Con gran merito.
Siamo a Ferrara tra il 1938 ed il 1943, in pieno regime fascista ed in pieno regime di leggi razziali, in una provincia che dello squadrismo fu culla e laboratorio di violenza.
L'ambiente che il film descrive invece è un ambiente famigliare ovattato, affettuoso, agiato, immerso in un parco e nella cultura ebraica. Ed è una descrizione calda, suggestiva, con una scenografia perfetta ed un cast dove non c'è una faccia e non c'è un tono di voce che non siano giusti.
La storia centrale è quella di un amore mancato (e meritevole di riflessioni amarissime) tra due ragazzi. Di uno, che nel racconto è il narratore, il libro non ci dice mai il nome, ma di certo lì si è nascosto lo scrittore (tant'è che De Sica lo affida col nome di Giorgio a Lino Capolicchio). La vicenda insomma è autobiografica e quindi almeno in parte vera. Della "lei", di Micol (interpretata da una Dominique Sanda splendente), si scarabocchia qui a parte.
E' il racconto di una formazione sentimentale, una riflessione accorata sul rimpianto e la perdita, su quel che poteva essere e non fu.
Intanto, i segnali che preannunciano la shoah risuonano minacciosi; ma su un sottofondo psicologico tutto ebraico che è quello della incredulità, della passività. La fiducia riposta in Mussolini-uomo d'ordine traballa, ma in quegli anni non cade neppure tra gli ebrei, se sono ricchi. Insomma, si vorrebbe che ogni cosa tornasse alla normalità, nonostante tutto dica il contrario.
E dunque, ragazzi che giocano e si corteggiano. Il tennis. I riti religiosi. Le buone letture e le buone maniere.
E' il racconto di una formazione sentimentale, una riflessione accorata sul rimpianto e la perdita, su quel che poteva essere e non fu.
Intanto, i segnali che preannunciano la shoah risuonano minacciosi; ma su un sottofondo psicologico tutto ebraico che è quello della incredulità, della passività. La fiducia riposta in Mussolini-uomo d'ordine traballa, ma in quegli anni non cade neppure tra gli ebrei, se sono ricchi. Insomma, si vorrebbe che ogni cosa tornasse alla normalità, nonostante tutto dica il contrario.
E dunque, ragazzi che giocano e si corteggiano. Il tennis. I riti religiosi. Le buone letture e le buone maniere.
Siamo alla sera di Shabbat, il giorno del riposo consacrato a Dio.
Si canta la professione di fede, nella penombra di una elegante sala da pranzo borghese, rischiarata da un grande lampadario: "Quattro è....Tre è...Due è....Uno E', il Dio che in Cielo sta".
La cadenza ripetitiva da filastrocca, nella sua semplice prevedibilità, accarezza, culla, trasmette il calore di una comunità non solo famigliare e non solo terrena.
La gestualità degli interpreti, Romolo Valli in testa è magnetica, incanta l'attenzione.
La camera cammina lenta attorno il tavolo tondo. Visi di donna e facce graziose di bambine. Uomini severi con la kippah in testa.
Poi irrompe, violento, il suono del telefono.
Il canto continua fiducioso ma le ciglia si aggrottano preoccupate.
Nessuno.
Un altro trillo.
Il canto rallenta, perde la freschezza quasi infantile che aveva.
Le voci si abbassano, diventano incerte, soffocate.
Affiorano domande inquiete, precedenti minacciosi.
Ancora un trillo.
Urla nella cornetta di rabbia e di invocazione.
Il canto affoga nel silenzio.
Poi qualcuno dall'altra parte finalmente risponde.
Il canto si il rialza gioioso e liberatorio per un pericolo temuto che sembra dissolversi nel banale invito ad una festa.
Ma è solo una illusione.
Era difficile rendere cinematograficamente con tanta magistrale semplicità e con un crescendo di tensione emotiva così coinvolgente l'affiorare dell'angoscia, il prepararsi della tragedia e insieme la stupita incredulità di chi non riesce ad immaginare, di chi ancora non vuol credere.
C.C. Baxter