giovedì 18 novembre 2021

Jack di Marilynne Robinson

 



Ecco cosa succede quando una scrittrice che ha un profondo sentimento religioso (una cosa che mi riguarda, anche da laico e non credente, perché precede la sua e ogni altra confessione e credenza), si mette a raccontare una storia d’amore. Succede che si sceglie il contesto più lontano, estraneo e ostile all’amore che si possa immaginare: razzismo, emarginazione sociale, menti martoriate da educazioni pervasive, pregiudizi, il male sempre in agguato nelle strade, nella case e nella testa. E poi racconta l’effetto che fa in quel contesto e in quelle menti la forza della vita e l’innocenza irragionevole e impura del sentimento che esplode. Lo scheletro nudo di questo romanzo sarebbe in fondo quello: una bella, estrema storia d’amore.  E sarebbe già molto quando è scritta nella prosa sontuosa e tormentosa della Robinson.

Non fosse che però poi la storia d’amore viene rivestita da quel sentimento, da una visione non solo dei personaggi e del contesto e dell’amore, ma dell’esistere umano, di fronte al mistero del bene e del male. E in quella visione, anche una bella storia d’amore cambia senso, apre un territorio sconfinato alla riflessione. I punti cardinali della bussola della Robinson emergono in questo libro forse meglio che nei precedenti della saga di Gilead: la banalità  del bene a fronte della follia del male, l’ingenuità, la ricerca disperata dell’”innocuità”, il dono cioè la pura grazia dell’esistere e del condividere. Anche perché nella loro originalità si rivestono in questo romanzo di un fascino struggente. 

Chi ha detto che Jack è ormai uno dei personaggi più grandi della letteratura americana, non sbaglia per niente. Così come non sbaglia chi cita come come contraltare della trilogia della Robinson la trilogia di Cormac McCarthy. Anche se a me Jack ha fatto pensare anche tanto a quell’altro gigantesco personaggio che è il Sabbath di Roth. E pure quella lì in fondo era “solo” una storia d’amore.