Si leggono solo cose o apologetiche o
demolitorie su questo film. Ingiuste tutte e due. Bisogna ripristinare la
giusta misura. Che è quella di un "quasi".
Per cominciare va detto che è un film da vedere. Anzi, che è
un film che non si può perdere. Di questi tempi, avrà i limiti che diremo, ma è
e resta un regalo. E sono pochi oltre a Sorrentino a poter fare regali così.
E va visto fosse solo perché, nonostante duri
quasi tre ore e non abbia una vera
trama è un film che non annoia mai:
lo scorrere delle immagini funziona, tiene legato a sé lo spettatore e le
interpretazioni sono quasi sempre convincenti. Quella di Servillo è come sempre
da applauso a scena aperta e le donne del film, chi più chi meno e Ferilli in testa reggono tutte il ruolo.
Il meno convincente è di sicuro Verdone.
Jep Gambardella (Tony Servilo) |
Il film nasce e vive su due grandi suggestioni. La prima è quella della Roma felliniana.Tutto il film è infarcito di citazioni felliniane. A volte
(quasi sempre) anche con riletture originali ed eleganti: dalla monaca
sulla scala al modo di correre dei chierici, alla adunata clericale (non è la
sfilata di moda ecclesiastica di “Roma”,
ma il pensiero lì va), alle suore col faccino angelico, ad una Serena Grandi
che sembra la Saraghina, al rapporto protagonista-regista narratore con
Servillo a far da Mastroianni e Verdone a far da Morando. Chi ha il culto del cinema di Fellini
magari non sempre apprezzerà, magari avrà la conferma che Fellini & Flaiano sono un’altra cosa
(i limiti di sceneggiatura, se si fanno questi raffronti emergono in modo impietoso), ma ha comunque di
che esercitarsi e di che divertirsi.
La seconda suggestione che è poi il vero asse concettuale attorno a cui
tutto il film ruota è quella proustiana. E’ il tema della ricerca della bellezza e della creazione artistica
come tentativo di dare un senso alla vita. Come Proust, alla fine, il
protagonista dopo una vita dissipata nella mondanità e nella ricerca della
bellezza, appunto, decide di tornare alle sue radici (con tanto di consiglio
che vorrebbe essere ironico e che però suona solo ridicolo di una improbabilissima
Madre Teresa di Calcutta ribattezzata suor Maria) e di iniziare a scrivere un
libro. E quindi è un tema che rimanda al suo negativo: alla mancanza di senso,
al degrado, alla disperazione, all’orribile, alla morte. Il personaggio del
giovane suicida dà rimandi precisi in questo senso, nella sua ultima
apparizione.
Va visto perché è un film di grandi ambizioni e perchè non è giusto dire che le manchi del tutto. E’
evidente che pur con i pregi che
s’è detto, lascia a tratti la sensazione di girare a vuoto o di
ripetersi o di banalizzarsi. La stessa resa estetica di Roma non è sempre convincente
e mai “da meraviglia”. Il carattere magico di certi scorci romani solo
raramente riesce a venir fuori. E
comunque, l’indimenticabile,
l’eccelso, il sublime si vede che viene cercato, si vede anche che era alla
portata, ma si vede anche chiaramente che non viene mai raggiunto. La scena da
antologia non c’è. Al capolavoro non si grida mai.
A voler scavare, più
generale, sembra che al regista
non sia completamente riuscito a trovare quella chiave narrativa ironica che
cercava, quella leggerezza che solo a tratti emerge o si intuisce. E
probabilmente questo è dovuto ad una contraddizione irrisolta con una terza suggestione,
quella rivelata dalla citazione di apertura. La citazione è questa:
“Viaggiare, è proprio utile, fa lavorare l'immaginazione. Tutto il resto è
delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco la
sua forza.
Va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato.
E’ un romanzo, nient'altro che una storia fittizia. Lo dice Littrè‚, lui non si
sbaglia mai.
E poi in ogni caso
tutti possono fare altrettanto. Basta chiudere gli occhi.
E’ dall'altra parte
della vita.”
Paolo Sorrentino |
Ecco, se c’è una cosa che Celine non avrebbe
potuto fare è ambientare e neppure
concepire il suo disperato "Viaggio
al termine della notte" a Roma, anziché nelle periferie parigine.
A Roma neppure
la disperazione, il vuoto, l’orrore
e quindi tanto meno il trash, il cafonal, il volgare possono essere
presi così sul serio. Neppure la missione salvifica della ricerca della bellezza.
Come si fa ad immaginare Proust con l'asma a Roma, chiuso in una stanza foderata di sughero con vista assolata su Trinità dei Monti o Piazza Navona?
Nulla a Roma è così irredimibile e cupo. Il perentorio "O Roma o morte", Maccari propose di sostituirlo con "o Roma o Orte": un quasi, insomma. Un modo p'aggiustasse.
Forse quel che frena il film,
lo devia sui percorsi in ombra, gli toglie luce e brillantezza, gli impedisce
di volare è che tutto e tutti si prendono troppo sul serio.
Regista in testa.
C.C. Baxter