Ai romanzi di Simenon (l'ho già detto qui) torno
periodicamente. Quando ho bisogno del puro raccontare, del nudo piacere del
leggere storie.
Ne esco rinfrancato. Ma ne esco anche con la percezione che
forse qualcosa manca. O forse che c’è un limite di comprensione
non varcato. E questo mi lascia una vaga insoddisfazione, una forma di
risentita diffidenza. È un po' come capita quando si guardano certi giochi da
illusionista: ci meravigliano, ci lasciano qualche vaga intuizione, il sospetto
di un imbroglio o semplicemente la certezza che un trucco c'è, ma che non siamo riusciti
a scoprirlo.
Un racconto asciutto, tagliente come un coltello di
ceramica.
Un protagonista ed una vicenda che affettano ghiaccio. E personaggi
disegnati con pochi tratti, come in certi schizzi a matita o a carboncino, che irrompono sulla pagina dalla
mano di un grande artista.
C'è ad un certo punto una frasetta che mi ha colpito e
fermato.
"Con i gomiti sulle ginocchia, lui la guardava, e non
era commozione quella che gli si leggeva in viso, non era dolore, bensì una
sorta di ebetudine, lo sforzo ostinato di chi vorrebbe capire".
Ecco, forse il mistero che cercavo (come al solito) è semplice ed è
tutto lì: Simenon guarda. E basta.
Guarda la scena, ce la descrive e ci racconta quel che succede. Cerca di capire e farci capire cosa
accade, semplicemente guardando e raccontando. Ci trasmette quella sorta di
ebetudine di cui parla il suo borgomastro, davanti al manifestarsi della nuda realtà.
E' un grandissimo
raccontatore di storie. Filma con le parole, fotografa sulle righe, riflette
sulla pagina come su uno specchio.
A qualcuno sembrerà banale. Per me non lo è.
D’altronde, che
non lo sia lo dimostra il fatto che c’è qualcun altro dice che Simenon ha
introdotto nel giallo lo scavo psicologico. Ecco, credo che se quella è una
banalità, questa sia una forzatura fuorviante, tutta novecentista. Leggere i
romanzi di Simenon con la chiave psicologista che apre appunto tanta
letteratura dall'inizio del novecento in poi, secondo me è un errore. E'
tutta lì la matrice dell'equivoco
che alla fine disorienta, lascia il senso di qualcosa che manca, che non torna,
che non funziona.
La sua abilità di scavo non si esercita sulla ricerca del
senso, sulla presa di coscienza, sui rovelli che hanno portato il suo
personaggio prima a muoversi nella sua "normalità" e poi ad virare su
un comportamento "anomalo", che produce una morte o un cambio di vita o una resa.
In Simenon c'è invece e soltanto lo scavo delle storie,
degli ambienti, dei fatti, del muoversi delle figure sulla scena, del manifestarsi del malessere o delle passioni.
Il romanzo è l'arte del dettaglio e insieme l'arte dell'implicito, del non detto che mette in
movimento la testa del lettore. Simenon di questa arte è grande
maestro. È dai dettagli che
nascono le sue "atmosfere": è dal nudo e scarno e essenziale
racconto dei fatti, che Simenon
illumina e ti mette davanti il personaggio. Te lo espone per com'è, per come si
muove, per cosa sceglie di fare.
Il resto è non detto: è implicito,
appunto. É affar tuo interpretare e
trovare nessi e cause "nel profondo".
Nessun illusionista che si rispetti spiega il suo trucco.
La catena delle cause e degli effetti per le quali il
Borgomastro è arrivato ad essere quel che è non c'è. Non c'è quasi mai nei suoi romanzi, se non
per accenni, vaghi spunti, lampi di
disvelamenti, vaghe stelle comete (come la madre per esempio, anche
quella disegnata con pochi tratti netti, essenziali). La mappa mentale che sta dietro le quinte te la devi
costruire tu, se proprio ci tieni. Col sospetto che a lui la cosa non interessi affatto. Anzi, lo dice lui
stesso che è così: « Io non penso mai », «Io non tiro conclusioni », « Io non
ho mai idee », « Io scrivo e basta».
Simenon, lo esprime bene un altro scrittore, Banville, è
"un osservatore attento e analitico, che nelle sue opere non si dilunga in
descrizioni favolistiche di luoghi e persone, ma anzi ad esse dedica spesso
poche e asciutte, anche se esaustive, righe. Tutto è crudo e brutalmente
trasparente, tutto è nuda realtà."
Questo comporta un'altra conseguenza importante: Simenon non
partecipa, non si fa coinvolgere, non giudica. Non c'è un osservatore
partecipe, che sia empatico o che
sia giudicante o che sia comunque emozionalmente coinvolto. Non c'è. C'è un
narratore osservante, un testimone asettico con guanti e mascherina. Ha ragione
ancora Banville: "Simenon riesce davvero a sembrare un osservatore
indifferente, uno che si sta tagliando le unghie, distaccato dal mondo da lui
creato". Sembra scivolare mostruosamente leggero e indenne, su un mondo
che vede da vicino, in ogni particolare, ma dal quale sembra essere
impermeabilizzato.
È la stessa percezione che si ha d'altronde anche leggendo
la sua meticolosissima ed impudica autobiografia. Anche lì esce fuori un personaggio che come il
Borgomastro ha del mostruoso, del raggelante. Chi trovasse Joris Terlinck poco
credibile non ha che da leggere quel che racconta di sè stesso, con lo stesso sostanziale distacco, il suo creatore.
Poi c'é da dire che la resa letteraria di questa visuale
passa ovviamente anche attraverso il linguaggio: un "vocabolario scarno e la
rinuncia di qualsiasi finezza letteraria, da atmosfere molto dense". Tutto sembra troppo semplice, naturale,
come si fosse scritto da solo. Ecco perchè viene da chiedersi "ma il
trucco dov'è?".
È tutto questo che contribuisce a produrre quell'impressione complessiva di un artifizio, del
frutto di un grande "mestiere".
Guardare da lettore il mondo che lui crea può dare la sensazione straniante di stare nel laboratorio
di un artigiano e guardarlo da dietro le spalle mentre lavora. Cos'è un grande
artigiano se non una miscela miracolosa fatta di inconsapevole talento, di una strabiliante manualità e
dalla sapienza spremuta e scremata da una applicazione quotidiana? Ecco, lui
sembra essere così, “solo” questo.
Oppure, per usare un'altra immagine, Simenon sembra stare alla sua scrivania, sul suo
foglio bianco, come si sta sul
bordo di una strada, seduto su un paracarro, i gomiti sulle ginocchia e
la pipa tra le mani, a guardare quel che succede a chi passa.
Riesce a non
sporcarsi neanche le scarpe di polvere, mentre i suoi personaggi sbalzano sulle
buche o sbandano o rompono la vecchia automobile, come il Borgomastro, senza sapere dove sta andando. E perchè.