mercoledì 20 aprile 2022

Malacqua di Nicola Pugliese



L’impressione, leggendo, è che sia un libro scritto in un momento di sospensione; e anche in uno stato di grazia. Lo racconta quel momento: “se ne restò in tal modo inebetito per qualche minuto a indagare su se stesso, il proprio destino, i misteri del creato, l’accadimento insolito”. Non a caso è l’unico di Pugliese (tranne un libricino di racconti introvabile). La sua biografia e la storia editoriale del romanzo, pure quelle, fanno pensare a qualcosa di molto strano; piene come sono di inquietudini, presagi, voglia di essere dimenticati, colpi di testa e fughe che rompono  improvvisamente una normalità apparentemente banale.

D’altronde, ci sono uomini e libri che se la portano dentro più forte quella inquietudine. Che è tutta interiore, per lo più, affogata e nascosta nella monotonia quotidiana. Che, se riesci a guardarla e capirla, si rivela quasi sempre essere la percezione del miracoloso e del tremendo dentro al vivere umano, con la coscienza del male e della morte e senza una spiegazione che dia ragione di tutto. La cercano e ovviamente non la trovano. Una ricerca che resta di solito silente e confusa. Se esplode possono venir fuori magari atti di follia che poi definiamo inspiegabili o opere d’arte come questa.

Ha tentato di dire cose molto difficili, quasi impossibili da raccontare, Pugliese: la morte e il male che si nasconde, imperscrutabile; l’attesa e il presentimento di qualcosa; la realtà che ti minaccia e insieme ti distrae; l’orrore del vuoto di senso, dove si può sperare di trovare “il significato ultimo” o forse c’è solo il niente; il mistero del vivere e la vita che ti spinge a andare avanti e basta, che ti suggerisce la saggezza del lasciar andare e del fare “solo” quel che si deve e quel che si può. E poi c’è la fiducia in quel che sarà, la resa e l’abbandonarsi al mistero e a quel che si porta dentro di bellezza, di passioni e di dolore. 

Ha messo tutte queste cose e altre ancora, Pugliese,  nel posto più improbabile e meno adatto, potresti pensare, a tenerle dentro: Napoli e Napoli in una pioggia che sembra non dover finire mai e che sembra preparare chissà quale “accadimento”. C’è riuscito con uno stile originalissimo, mischiando gli stilemi della cronaca alla lirica all’epica. Ci sono pagine da antologia (il funerale di Rosaria, la decisione di Luisa Sorrentino, la prima volta di Giovannella, la storia di Susan e Salvatore), che emozionano. Ma tutta l’atmosfera trasmette una emozione accorata e di spaesamento.

La chiave sta nell’attesa proprio nell’”accadimento”, quel senso di vaga intuizione e di qualcosa che deve succedere, tra l’angoscia e la speranza. Uno stato mentale che tutti forse proviamo quando incontriamo l’inconsueto che accade e che ci avvicina  al Mistero che circonda e percorre come un fiume carsico la vita. Dietro segni surreali tremendi (la pioggia implacabile, case e strade che sprofondano, le bambole che urlano, la paura della gente) o a segni altrettanto surreali, ma che sembrano voluti da una entità compassionevole (le monetine che cantano, il mare che va incontro ai bambini cacciati dalla spiaggia) c’è il bisogno e la vaga percezione di un perché, di un senso. O forse c’è solo la spinta a  immaginare e a credere qualcosa che spieghi, che dia una svolta, che ci condanni in modo chiaro o che ci salvi. 

Di fronte all’idea della morte e al male, di fronte agli orrori (pensiamo a quel che abbiamo fantasticato, detto e letto da due, tre anni a questa parte, tra pandemia e guerra), sempre l’uomo ha provato a trasformare eventi e fatti in segni, in preludi e preannunzi. Ha cercato di interpretare, immaginare, indagare, magari anticipare attraverso un vaticinio; di scovare simboli nella apparente banalità delle cose. Nel tentativo riuscito di raccontare  questo e nel modo in cui ci riesce sta la bellezza di questo romanzo.