mercoledì 20 giugno 2012

"Assalonne, Assalonne" e la nave Taormina

Ecco il secondo racconto di Pietro Spina, scarabocchiante  a singhiozzo.
Il suo primo raccontino è qui

1
Muratori in canottiera passavano in controluce dietro le serrande abbassate, contro il sole di maggio quasi al tramonto.
Quelle di maggio per me sono le sere più belle dell'anno. Soprattutto lì, nella vecchia casa di famiglia, tra mare e pineta. C'erano i lavori di ristrutturazione della facciata però, a rovinare l'effetto. Duravano dall'autunno e non se ne vedeva la fine. Balconi senza più ringhiera, impalcature, carrucolare di secchi di sabbia e cemento.
Non c'era stato verso: nonostante i rumori e la polvere e l'impossibilità di star fuori a prender fresco e salsedine, lì era voluta tornare la zia. A vivere da sola lo sgocciolare di una vita lunghissima, col cuore che reclamava  la pausa definitiva, tra battiti intermittenti ed irregolari. Aveva assunto la posa di una vecchina da libro di favole illustrate. Capelli che non si volevano arrendere al bianco; la magrezza fragile a preannunciare la dissolvenza;  la schiena curva, a sfidare la forza di gravità con il precario e saltuario aiuto di un vecchio bastone nodoso di terza mano. Negli ultimi mesi il complicato affluire del sangue al suo cervello aveva incontrato qualche ingorgo di troppo. Mancamenti seguiti da ricoveri, brevi interventi tampone e lunghe e movimentate degenze in ospedali da collina di provincia. Come per il resto della sua vita, il malessere era evaporato in follie cattive: aggressioni alle infermiere, volare di aghi e flaconi di flebo, tentativi velleitari di fuga e crudelissime cattiverie per noi.



Noi eravamo lo stremato drappello superstite di prigionieri dell'affetto: i sopravvissuti di un esercito di nipoti per lo più in rotta, che avevano scelto man mano, negli anni, la via della fuga. Perché era sempre stata così. La migliore delle zie, la più simpatica e generosa nei momenti buoni e la più ingovernabile e feroce nei momenti di caduta, dell'umore e della salute. Momenti che avevano disseminato lungo tutta la sua vita un rosario di liti furibonde.
Quella sera però era tranquilla. Lucida. E lucidamente invocava non so con quanta sincerità la clemenza dell'approssimarsi veloce di una fine che voleva dolce e decisa, come un colpo di forbici su un panno consumato. La sua stanchezza di continuare a r/esistere contro gli anni ed i malanni ti sembrava vederla affiorare come il dorso di un mostro pachidermico su un fiume africano in secca. Affiorava anche grazie forse al primo caldo di stagione, ai rumori infernali ed imprevedibili di quella giungla di lavori esasperanti, all'impossibilità di mettere la sedia al fresco del balcone. Una stanchezza che si liquefaceva ogni tanto nella sonnolenza, per via delle gocce che le davano, nel tentativo di proteggere le sue valvole cardiache dagli eccessi adrenalici, sempre pronti a schizzare in vena.

La  fame di vita e di nuovo non sparisce mai del tutto, è insopprimibile, specie in donne di quel genere. La sua curiosità era irragionevole quanto l'istinto di sopravvivenza: andavano a braccetto e si sorreggevano a vicenda. Era quella cosa lì, quando noi eravamo bambini, a portarla a strisciare in ginocchio in mezzo ai nostri giochi sul tappeto, tutta ingioiellata, sontuosa nelle forme ed elegante nei vestiti che le fasciavano; e qualche anno dopo a mettere il naso nelle nostre storielline di scuola; e poi a farla spettegolare sulle nostre vite di adulti. Era quella cosa lì, la curiosità, che l'aveva elevata a ruolo di gran consigliera delle donne, adolescenti di tutte le età, del condominio e del quartiere. Ancora si affollavano ogni giorno in quel vecchio salotto marrone, per raccontare i fatti loro, fino ai più intimi dettagli. Le storie di cuore e di letto erano la sua specializzazione, coltivata con una assidua frequentazione della letteratura rosa, Liala in testa: il suo mito personale.
D'altronde, tutti in famiglia siamo così: innamorati di storie,  curiosi di sapere.

2

Nel mezzo di una conversazione sempre uguale e sempre più sommessa, fu proprio la curiosità a farmi tirar fuori l'ipad dalla borsa. Fu quando sentii suonare il campanellino che avevo assegnato alle mail di una mia amica di libri. Mi chiedeva notizie ulteriori della mia arbitraria e personalissima lettura di "Assalonne, Assalonne" di Faulkner. Avrei risposto dopo, con la calma sapida dovuta ad un romanzo che la meritava tutta; come la mia amica, d'altronde. Ma intanto il mio giocattolo preferito aveva attratto la sua attenzione. Per tentare di tirarla su dal vicolo cieco di quei pensieri cupi, le feci vedere le foto della nostra ultima vacanza ed il suo settimanale di gossip preferito. Poi tentai di spiegarle come funzionava internet, la ricerca di notizie in rete, google. I suoi occhi brillavano famelici. Tentai di compiacere il suo orgoglio per le storie ormai vecchie della mia vita pubblica e digitai il mio nome per farle vedere quel che veniva fuori.
Senonchè, al primo rigo delle risposte a venir fuori fu una cosa vecchia che invece era  nuova anche per me. Scoprii che avevo fatto un viaggio a New York, nell'ottobre del 1923, su una nave chiamata Taormina. Ovviamente era impossibile. A quella data, mancavano quasi 33 anni per arrivare al giorno della mia nascita.

"Fu tuo a nonno a partire per l'America nell'ottobre del 23. Come fa a saperlo questa tavoletta?" Era scattata su, lo sguardo fiammeggiante dietro gli occhiali giallini, a tentar di bucare il touchscreen.
Era stato mio nonno d'altronde, il titolare legittimo ed effettivo del mio nome: finchè era vissuto, mi avevano sempre chiamato con un diminutivo di ripiego. Me l'avevano assegnato come in subaffitto, il nome, come il piano nobile di una casa nobiliare: il privilegio dovuto al primogenito del primo figlio maschio. Di fatto, un privilegio senza altre comodità che una strana forma di reciproca e speciale alleanza tra lui e me, contro qualcosa di innominabile e misterioso che intuisci cos'è solo dopo aver passato i quaranta. E lui non c'era già più, a quel punto. Una molto implicita complicità, con a monte, come una sorgente  invisibile e profonda,  un affetto più scontato e sottinteso che avvertito e manifestato. Così d'altra parte si usava in quelle generazioni di uomini, nei paesi del sud.
Per mia zia, mio nonno era non solo suo padre, ma anche l'unico uomo che avesse insieme amato rispettato e temuto (al marito aveva voluto bene, ma sempre una specie di minus lo aveva considerato). Perché era il prototipo venerato del suo stampo caratteriale. E reciprocamente si erano venerati per sessant'anni, sulla base consapevole del compiaciuto riconoscersi gli stessi difetti. Che è poi, il più appagante e resistente dei legami.
L'avvertivo a pelle che quella storia le rimetteva la vita addosso. Quelli che riguardavano suo padre erano i pochissimi argomenti in grado di di ricaricare le batterie del solo pace-maker di cui avvertiva il bisogno: altro che quello che le avevano istallato appena da una settimana e che aveva accettato senza crederci neppure un po’. Il fatto è che anche per me quella notizia rimise in moto qualcosa: non ne sapevo niente di quel viaggio in America.


3

Il link mi aveva trasferito su un sito. Il sito aveva preteso una iscrizione. L'iscrizione mi aveva dato il diritto di accedere addirittura ad un biglietto di imbarco ed alla foto di una nave. Esattamente quella sulla quale mio nonno era salpato verso New York poco meno di novant'anni fa.




Eravamo a bocca aperta tutti e due, la stessa sorpresa con due facce. Se cercavo il modo per dare una dimostrazione di quel che si potesse fare con un ipad e con la digitalizzazione e la messa in rete della vita del mondo, non poteva riuscirmi meglio. Gli occhi lucidi della zia lo dimostravano. Non c'era ancora nell'ottobre del '23. Sarebbe nata solo tre anni dopo, una sorta di frutto della festa del ritorno, immagino. Ma della storia aveva saputo e ricordava tutto.
Il nonno aveva perso la madre che neanche aveva cinque anni. Una  polmonite bastava, ai primi del novecento, per ammazzare una donna, anche se ben nutrita e anche tra gli agi di una famiglia di commercianti relativamente ricchi. Avevano già avuto anche una bambina, da qualche anno ormai. Il marito non si rassegnò ad una vita di solitudine e sposò una donna che tutti mi avevano descritto come bellissima, la più bella del paese. Vedova anche lei e anche lei con due figli.

La storia poi diventa banale come quella di tutte le favole. Una sorta di Cenerentola al maschile con la matrigna, il figliastro e i signorini che, mentre lui lavora per tutti, se la spassano e lo spossessano di tutti beni del padre. La sorella aveva trovato presto marito e insieme se n'erano andati in America. Non sarebbero mai tornati, se non per una memorabile visita di pochi giorni, ma ogni anno mandavano un pacco immenso avvolto in un lenzuolo, monumento mobile dell'opulenza conquistata.

Tornando al nonno, il tipo era tosto e poco propenso ad aspettare un lieto fine o a delegare le vendette al destino. Mise in piedi commerci suoi e quando si innamorò di mia nonna la sposò e cominciò a farle far figli. Almeno finchè non era arrivato il maschio, mio padre appunto. Questa passione degli uomini per i figli maschi e la trasmissione del nome può avere una potenza che travolge le vite e produrre cose terribili. Comunque a lui al terzo tentativo riuscì, ma il perpetuarsi del nome non bastava ad appagare il suo orgoglio. Voleva tornare ricco in fretta. E decise di andare a raggiungere la sorella. Da solo, altrimenti forse non starei qua, a scrivere. Ad un certo punto, alle soglie dei trent'anni, aveva anche voglia di attraversare la sua linea d'ombra, di vedere il mondo. Mia nonna non riuscì ad opporre nessuna ragionevolezza che fosse in grado di colmare l'abisso di carattere e di forza e di inquietudine, che la separava dall'uomo che aveva sposato. E lui si imbarcò a Napoli con un gruppo di cinque amici del  paese.
C'erano i nomi di tutti su quella carta d'imbarco. Mia zia ricostruiva, man mano che leggevo i loro nomi, le future genealogie di ognuno, per svelarmi le identità ed i collegamenti che una volta tornati avrebbero innescato con la mia vita. Mentre il racconto che in parte già conoscevo proseguiva, la mia tavoletta mi raccontava di quella nave.
"La nave Taormina fu costruita nel 1908 nei cantieri navali D. & W. Henderson & Company di Glasgow, in Scozia, per la società britannica Henderson. Stazzava 8.282 tonnellate, era lunga 158 metri e larga 18, con un solo fumaiolo e due alberi. Aveva motori a vapore a tripla espansione e doppia elica. Poteva viaggiare ad una velocità di 16,5 nodi e trasportare fino a 2.680 passeggeri, di cui 60 in prima classe, 120 in seconda e 2.500 in terza. Era utilizzata per i collegamenti tra l’Italia e New York. Fu demolita in Italia nel 1929."

Ci passò tre mesi sulla nave Taormina. Ed il viaggio fu così disastroso, per via del mare e del cibo e delle scomodità, che finì con il prendere una stranissima malattia, della quale non seppe o non volle mai raccontare nulla di preciso. Fatto sta che quando scese a Long Island non aveva più un capello in testa. La prima lettera arrivò a casa sei mesi dopo e raccontava di una fabbrica di scarpe dove si guadagnava molto bene. Cosa facesse esattamente in quella fabbrica, se davvero esisteva, e cosa facesse poi fuori di lì nessuno in famiglia lo ha mai saputo. Fatto sta che si ripresentò dopo tre anni, senza neanche un rigo di preavviso, ma con un mucchio spropositato di dollari cuciti nella fodera di una giacca di cuoio con le frange, che in riva all'Adriatico non ebbe mai il coraggio di infilare.

Nel frattempo i due signorini si erano sfrusciati le riserve liquide del vecchio. La delega a firmare concessa alla moglie sul conto postale era stato un errore del quale si era reso conto troppo tardi. Il direttore delle poste del paese per quella donna sarebbe stata capace di giocarsi carriera e stipendio. Aveva però terrore del vecchio: un marcantonio di un metro e novanta con le spalle di un ciclope e il coltello facile. Non andò mai al di là di un patetico corteggiamento. Almeno secondo la zia. Ma non aveva nessun motivo di simpatia per avvertirlo che la sua seconda moglie gli stava prosciugando le riserve. Sempre per quell'ispido orgoglio cromosomico che gli impediva persino di confessarli a sé stesso, certi errori gli maceravano le cellule: da questo,  gliene venne un ictus. Dovette trascinare per tutta la sua lunghissima vecchiaia una gamba ed un braccio che non gli perdonarono mai l'autoffesa di quella leggerezza.

La zia sorrideva perfidamente "Finiti i soldi dovevano vendere, i signorini. E chi aveva i soldi per comprare la licenza dei generi di monopolio? E la cantina con cinquanta botti? E la casa? Tuo nonno, è ovvio. E tirò il collo, insieme col prezzo, a quei due scemi."

Il padre gli fu complice: derubato per derubato, preferì scegliersi il figlio, come ladro. E con i dollari non si saprà mai guadagnati esattamente come, mio nonno finì così col ricomprarsi la roba che doveva esser già sua. Nel sapore di quella rivincita che s'era andato a conquistare a Nuovaiorche, c'era nascosto insieme con tutto il suo peccato di orgoglio anche un fondo d'amaro. Per via delle terre. Le terre non c'erano più. Quelle, il vecchio se le era già vendute mentre lui era dall'altra parte del mondo: uno sterminato oliveto in piano a cui non aveva mai dato troppa importanza. Privarsene gli era sembrato il male minore. Aveva torto. Lì adesso c'è un quartiere intero di palazzine a cinque piani.

4

Il seguito di quel pezzo di storia lo conoscevo già, ma glielo lasciai raccontare lo stesso alla zia. Aveva recuperato tutta la sua voglia di chiacchierare. Fuori s'era fatto silenzio, le ombre si stavano impadronendo della sera. E lei si era impadronita dell'ipad: ingrandiva la foto lavorando a forbice con le dita come se avesse fatto un corso in un Apple store: " Ma guarda che cosa bella mi hai fatto vedere oggi! Ma lo sai che mi sto commuovendo?". La commozione le veniva dall' immaginare la vita dentro quelle cuccette, nei saloni che poteva solo intuire.
"Tuo nonno fu l'unico a prenotarsi in prima classe, lo sai? E' sempre stato un signore. Persino da emigrante. La mamma diceva che era bellissimo quando partì. Elegante. Con gli occhi azzurri e i capelli neri neri neri. Da calvo gli occhi si vedevano ancora di più. Quando uscivamo insieme e mi dicevano che ero bella diceva a tutti, ridendo: "siamo tutti belli noi in famiglia. Di razza, lo siamo". Fingeva di scherzare, ma io lo so che sotto, sotto diceva sul serio. Aveva un orgoglio di sé e della sua famiglia che mi faceva sentire una regina".

Sulle terre, la storia me l'aveva raccontata lui quando seppe chi era la mia fidanzatina, la donna che avrei finito poi per sposare, pochi anni prima che morisse. Me la raccontò con una piega della bocca, con un finto sorriso che avrebbe dovuto nascondere la vergogna inconfessabile dei lucciconi trattenuti. Suo padre le aveva vendute ad un commerciante di cereali. L'unico che aveva abbastanza soldi liquidi per comprarsele. Mi disse che a distanza di decenni aveva ancora e ancora tentato di riprendersele, a qualsiasi prezzo. "Per un fatto di orgoglio. Perché è l'orgoglio che ci ha salvato a noi. Sempre,  ricordatelo. E' il nostro unico peccato. Perché ci ha impedito di perderci senza rimedi in tutti gli altri. E di finire in malora!", mi disse. Il vecchio commerciante di cereali però non vendeva terre: le comprava soltanto, lui. E ad un certo punto,  suo malgrado, solo in eredità le cedette, ad uno dei suoi tanti figli. Caso e destino vollero che quel figlio dovesse un giorno diventare mio suocero.
Nessuno come mio nonno fu più contento di quel mio matrimonio. Avevo completato per lui una rivincita rincorsa una vita.

Mi stava accompagnando alla porta, la zia, accarezzandomi il braccio che la sorreggeva lungo un corridoio largo e lungo, come si usava nelle case di una volta, nel semibuio dolce e fresco delle penombre estive, che tutti in quella casa  abbiamo sempre prediletto.
Sorrideva ad un pensiero e non potè fare a meno di passarmelo, come un saluto.
"A volte le cose della vita fanno strani giri. Sai, i due principini i soldi americani se li bruciarono in fretta. Hanno fatto una vita di morti di fame. I figli, che sono bravi ragazzi, adesso però stanno bene. Sono diventati ricchi. Tu pensa un po’, stanno in America."

PIETRO SPINA