lunedì 19 settembre 2022

Sia lode ora a uomini di fama di James Agee e Walker Evans

 


Romanzo-reportage, anche fotografico, che è diventato un po' una leggenda. Una cosa è certa: un po' ti toglie la pelle. Vollmann nella introduzione a I poveri (un libro che tratta dello stesso argomento con tutt'altra tonalità) scrisse “leggere Sia lode ora a uomini di fama è come prendere uno schiaffo in faccia”. È così. Intanto, perché si capisce ad ogni pagina che la pelle l’ha tolta anche a chi lo scriveva, mentre lo scriveva. E poi, Agee in effetti non perde occasione per prendersi a schiaffi da solo. Per i complessi di colpa dice ancora giustamente Vollmann, ma non solo. Certo, il tema del senso di colpa dell'intellettuale famoso e impotente davanti alla tragedia degli ultimi è importante nel libro. Ma lo è anche Il tema metaletterario del rapporto tra giornalismo e letteratura, tra fedeltà della rappresentazione e creazione artistica, tra dovere della testimonianza e narcisismo.


La cosa migliore è la ricerca della bellezza dell'umano, anche sulle soglie estreme della povertà. Le descrizioni sono ossessivamente minuziose, ma sempre con quello sguardo all’orizzonte lungo delle vite e della condizione generale del vivere. Sempre come fosse davanti a qualcosa che ha del sacro e quindi anche del sublime. Fa pensare alla minuzia devota con cui Melville in Moby Dick parla come se scrivesse un manuale di balene per balenieri. Potrebbe annoiare, ma è in quella punta di noia che si nasconde la percezione del grandioso e non bisogna lasciarsela sfuggire. Lo scova nelle facce, nelle cose, nelle case, nei campi, nelle bestie, nei vestiti, nelle scarpe, nei paesaggio, nello straziante cimitero. Il che, sì, un po’ riscalda il cuore, ma fa anche aumentare la forza dell’effetto che nel lettore fa la tragedia di quel vivere, del vivere. 


Lo commuove. Lo fa pensare. Nonostante chi scrive lo faccia sempre col ciglio asciutto. Non vuole commuovere anche quando sarebbe umano volerlo e commuoversi. E non vuole nemmeno giustificare, coprire, nascondere la faccia brutta e oscura e degradata di quella umanità.


Poi c’è la cum-passione: la spinta dell’autore, che si percepisce in ogni parola, a condividere e a sottrarre alla solitudine; a riscattare, raccattando in mezzo alla mortificazione della miseria e dello sfruttamento quelle che potrebbero sembrare solo briciole di splendore, di coscienza e di umana nobiltà; e, forse, chissà, persino di speranza. Briciole che sono comunque, alla fine, quanto di più prezioso quegli esseri umani e tutti gli esseri umani, per il semplice fatto di esistere come tali, hanno. È anche questa sensazione di partecipare, questa condivisione a rendere la lettura del libro, alla fine, una semplice, complicata, terribile, accorata consolazione.

Due annotazioni finali. Il capitolo più esemplare e anche sconvolgente del libro è quello dedicato alla educazione dei bambini, descritta con tanto di argomentazione come pratica criminale di asservimento e come genocidio delle umane potenzialità. E al suo interno sono illuminanti le considerazioni sulla coscienza, sul suo valore salvifico. Ne mette bene in evidenza però anche il risvolto di disperata dannazione che può avere nella vita umana il dono e la sventura di imparare ad essere coscienti. 


Il senso più profondo e la parte più bella del libro sta nel capitolo titolato “Due punti”. Che è il suo manifesto, anche poetico, di intenti; ed è quindi una sorta di lirica sinossi del libro. Una quindicina di pagine da leggere assolutamente. E poi, lentamente, da rileggere.