giovedì 28 luglio 2022

Il comunista di Guido Morselli



Bisogna convincersi e ricordarsi che Morselli era un grande scrittore. E da grande scrittore aveva anticorpi potentissimi contro ogni forma di  autobiografismo. Era bravissimo a usare il romanzo, come forma espressiva ideale  per  nascondere e insieme rendere universale e generale quel che aveva capito e voleva raccontare di sé e del modo in cui vedeva il mondo e gli altri. Chi legge “Il comunista” non deve dimenticarselo e non deve fare l’errore di leggerlo come  come se fosse un romanzo solo e nemmeno soprattutto politico. Perché sarebbe un abbaglio, un grosso errore.


Morselli era un uomo colto e sofferente, consapevole del proprio dolore di vivere, che si arrovellava attorno alla condizione dell’esistere, alle umane contraddizioni e alle proprie innanzitutto. Non credeva da un lato alla possibilità di ricondurle ad un principio assoluto, a una verità rivelata o scientificamente acquisita per sempre. E dall’altro  non credeva a nessuna loro ricomposizione dialettica, a nessuna sintesi progressiva, a nessun sole dell’avvenire che immancabilmente sorgerà. Percepì, certo, e forse si  divertì anche  ad indagare e smascherare  le ipocrisie, le meschinità dell’apparato del Pci, il carrierismo intonacato di ipocrisia che vi si annidava, la sua insopportabile invadenza nella sfera del privato. 

Quel che più gli interessava però era  il  tentativo di aggirare, piegare e ingabbiare con l’oppressione della burocrazia e dei dogmi la verità e la realtà della condizione umana. Alla base di questo romanzo e di tutta la sua opera c’è la convinzione, che nulla ha che fare con la politica, per cui l’essere umano è un groviglio di dolore e di spinta vitalistica, di entusiasmo e di abbandono, di bisogno di capire e di desiderio di oblio, di ricerca del piacere e di certezza della fine. Non a caso il protagonista del libro, l’on Ferranini, “uomo parabolico” si definisce, oscillante tra poli umorali, sentimentali e di pensiero mutevoli e opposti.  E che in questo oscillare tenta comunque di trovare una sua intima coerenza, una sua personale forma di fedeltà a se stesso, una sua “purezza”.

Per fare un esempio, uno dei maggiori pregi di questo libro, non sta tanto nella  straordinaria modernità della sua visione del lavoro, che pure, a sessant’anni di distanza è ancora capace di suonare come una denuncia  dell’arretratezza della elaborazione delle sinistre occidentali. Ci ricorda che in una utopica società felice il lavoro sarebbe ridotto al minimo indispensabile e mai potrebbe esser visto come modo per nobilitare l’uomo, per dargli dignità. Mai potrebbe essere fondamento di una Costituzione di una Repubblica ideale. Mai potrebbe stare in una enciclica papale. Non sarebbe rivendicato, ma piuttosto rinnegato. Al suo protagonista Morselli fa dire: “Il Primo Maggio non è la celebrazione del lavoro, è una celebrazione contro il lavoro, e difatti la si attua con l’astensione, dappertutto, URSS compresa. È un po’ come io intendo la commemorazione dei defunti: in onore dei morti, ma non certo in onore e lode del dover morire. Il Primo Maggio serve a ricordare che il lavoro è una mortale fatalità.”   

Epperò la cosa veramente importante è  un’altra: è che a Morselli parlare del  lavoro  serviva soprattutto come paradigma, per esprimere un dato astorico e pre-economico, connaturato nel destino dell’uomo, che per lui era condannato alla fatica di strappare alla materia, alla natura, le condizioni per garantirsi una sopravvivenza continuamente minacciata. E non ci sarebbe mai stata una società utopica in grado di cancellare questa condanna. Neppure la tecnica può salvarci da questo destino. Guarda al lavoro, guarda all’uomo  nella sua dimensione economica, sociale, guarda alla  politica e al conformismo dei comunisti solo per arrivare a dimostrare la  fragilità ineliminabile della vita; per scrivere della  condanna dell’uomo alle vie paraboliche dettate dall’universo e dalla materia e non alle linee rette segnate dai sistemi dottrinali; per denunciarne il destino di essere continuamente costretto alla fatica vana di esistere e di resistere alla aggressione inconsapevole di una natura indifferente e di cedere infine alla malattia e alla morte. Non è di certo un dato marginale per capire Morselli il fatto che fosse un appassionato cultore di Leopardi.

L’errore della lettura politica o prevalentemente politica di questo romanzo e dell’altro che lo aveva preceduto (Incontro col comunista) costò carissimo a Morselli. La sua storia editoriale a rileggerla è struggente e insieme indigna. “Scrittore senza destinatario“ lo ha definito in un bel saggio che porta questo titolo Francesco Olivari. Scrittore con l’h” si definì egli stesso: potette scrivere solo libri muti, impubblicati perché rifiutati. Sempre. E da tutte le case editrici. Solo dopo morto, grazie ad Adelphi, venne fuori una produzione letteraria ricchissima, varia, di insospettata qualità. A tratti, di altissima qualità. Ormai si era rassegnato a scrivere per sé. Il giorno che si uccise aveva ricevuto l’ultimo rifiuto a pubblicare quel piccolo gioiello che è “Dissipatio H.G.”

Fu senz’altro anche per questi due romanzi che finì nel tritacarne dell’editoria italiana degli anni ‘50 e ’60, largamente dominata da intellettuali legati al Pci. La corrispondenza tra Morselli e  Calvino, i commenti su di lui di Moravia, a leggerli oggi  fanno arrossire di vergogna e di rabbia. Si era persino dovuto piegare alla ingiunzione di cambiargli titolo, al romanzo. Per lui d’altronde non era quella la cosa più importante. Bisogna dire “anche” perché la ragione principale dei rifiuti forse fu che proprio non lo capirono. In un mondo diviso in due chiese che pretendevano di detenere una Verità e in cui bisognava schierarsi per galleggiare, non capirono la sua problematicità (che era una sua grandezza); non capirono la complessità del suo modo di vedere gli uomini, l’idea che raccontava  del senso dell’esistere, il dolore che si portava dentro e che nascondeva, scomponendolo nei suoi personaggi con un’arte narrativa raffinatissima, precisa e labirintica. 

Non lo capirono dunque, questo è certo, ma resta forte il dubbio che senza quei due  romanzi,  letti come provocatori e pericolosi (per il partito, per la linea, per l’ortodossia, per il Migliore di turno) da chi contava molto allora se si trattava di decidere cosa pubblicare in Italia, forse avrebbe avuto maggior ascolto e maggior attenzione. E d’altronde è dura dire quale delle due spiegazioni è più infamante per chi lo lasciò con l’”h”, muto. Fu una cosa da servi sciocchi, non si sa se più sciocchi o più servi di partito. Ha ragione Linda Terziroli nella sua appassionata biografia titolata “ Un pacchetto di Gauloises” quando scrive “Guido Morselli rappresenta non tanto lo scrittore postumo, quanto la crisi del mondo della letteratura italiana e dell’editoria.”