domenica 1 maggio 2022

Vita e destino di Vasilij Grossman

 



    È uno dei più grandi romanzi del novecento, riconosciuto ormai come un capolavoro. Ha già passato tanti guai: la sua stessa storia editoriale è già un romanzo. 

    Grossman era un ingegnere chimico, reporter di guerra, ebreo, comunista sovietico convinto, abile nel sopravvivere ai margini della nomenklatura staliniana. Non vacilla neppure quando gli arrestano la moglie che a fatica riesce a strappare alle grandi epurazioni staliniane. Poi scopre la grande persecuzione antiebraica, una delle tante cose che accomunarono nazismo e stalinismo. E Grossmann deve farci i conti. Alla fine degli anni 60, dopo quasi vent’anni di macerazione interiore, tira fuori un immenso manoscritto. In tre copie. Lui da uomo di partito ne porta una al KGB e il KGB dopo averlo letto gli perquisisce la casa, gli requisisce la macchina da scrivere e persino la carta carbone con cui aveva battuto e gli dice che il suo lavoro potrà essere pubblicato forse fra 250 anni. Arriva invece tra vicende incredibili alle stampe negli anni 80 e solo l’anno scorso in Italia in forma completa e definitiva. 

    Sono 827 pagine straordinariamente avvincenti, dense, piene di storie: un racconto complesso e nello stesso tempo essenziale, in cui niente è superfluo. Impossibile annoiarsi. L’impianto è tolstoiano: l’hanno definito il Guerra e Pace del ‘900 ed in qualche misura lo è davvero. La storia-base è quella della famiglia Saposnikov, la madre e le due sorelle in particolare (Liudmila e Euzenia). Attorno a loro gira una moltitudine sterminata di altri personaggi più o meno importanti. Dunque, come in Guerra e Pace c’è la vicenda corale di una famiglia normalmente complicata, fatta di gente che lavora, si innamora e si interroga su quel che gli succede attorno. E c’è una vicenda storica epocale, la battaglia di Stalingrado, lo scontro finale dei due grandi totalitarismi del XX secolo, la battaglia decisiva della ultima grande guerra europea. 

    Vita e destino è quindi anche un grande romanzo storico su uno snodo decisivo della seconda guerra mondiale, scritto da un grande reporter di guerra. Di più: è il romanzo in cui nazismo e comunismo vengono riconosciuti come fenomeni omologhi nella loro visione dell’uomo e della storia. I  mostruosi meccanismi del totalitarismo che li accomunano vengono smontati ed analizzati con precisione, in modo quasi chirurgico. Ma Vita e destino è anche il romanzo dell’uomo comune del nostro tempo, dell’individuo colto nella sua quotidianità, di uno come noi insomma, posto davanti ed in mezzo agli orrori della storia. Di uomini e donne che si sono trovati a vivere in un’epoca in cui hanno imperversato idee con forze terribili a loro disposizione, che volevano tutte affermare quel che ritenevano essere dal loro punto di vista il bene assoluto. Idee e forze che si rivelano invece spaventose macchine di annientamento e di oppressione dell’uomo. Guerra e pace era scritto con la lingua e la tecnica di narrazione dell’ottocento russo. Vita e destino è scritto con una lingua asciutta, quasi fredda, in cui si riconosce la formazione di un grande giornalista: frasi brevi, nessuna concessione alla retorica, alla pornografia dei buoni sentimenti. 

Nonostante la mole non è un mattone, tutt’altro, ma è un romanzo duro, forte, anche difficile. Non solo perché tratta argomenti duri, ma anche per ragioni tecniche, di lettura: folla sterminata di personaggi (una decina maggiori e circa 600 minori) nomi russi (tre nomi per personaggio e a volte il diminutivo) diversi piani narrativi che si incrociano, ciascuno con protagonisti, scenari e storie diverse. Non bisogna lasciarsi scoraggiare dalle prime cento pagine e appuntare i nomi e gli scenari. Soprattutto non bisogna avere fretta: questo non è un romanzo che si passa come le acque alle terme. Questo è un romanzo che impone lui il suo tempo di lettura: ha un suo ritmo interno e richiede una lettura lenta, impegnata, da lettore motivato, che cerca qualcosa di importante e che deve sapere che qualcosa di importante troverà, perché estrae dalle tragedie del‘900 una riflessione universale. 

    Grossman parte dall’assunto che nessuno è innocente, che nessuno è completamente buono e nessuno è completamente cattivo, che ciascuno porta in sé inscindibilmente fusi, il bene ed il male. Ognuno di noi deve sapere che avrebbe potuto essere l’uomo che chiude la porta della camera a gas dietro al piccolo David ed a Sofia Levinton, in alcune delle pagine più intense, belle e sconvolgenti che io abbia mai letto. Da questo consegue che se bene e male sono inscindibilmente mischiati, quando l’aspirazione al bene si fa dottrina, manifesto, catechismo e si dota di un apparato (che sia partito, chiesa, stato, burocrazia, esercito) porta in sé nelle dottrine e negli apparati anche quella parte, quel germe del male che è in lui e che si annida proprio in quello che ritiene essere il bene assoluto. Per il fatto stesso di ritenerlo tale. La lezione della storia del ‘900 è esattamente questa: è la storia di chi vuole il tuo bene in assoluta sincerità e che in assoluta buona fede, semplicemente, ti annienta, dopo averti sottoposto alla sofferenza più atroce e alla percezione più lancinante del male. 

    Vita e destino ci dice che se c’è un insegnamento universale da trarre dagli orrori del nazicomunismo è che bisogna guardarsi da chi afferma di volere il tuo bene nel nome di una verità che ti salva. Sembra delineare una situazione disperata e paralizzante, ma ci dice anche che tale non è. Lì sta la lezione universale, quella che trascende la Storia: nell’uomo portato alle condizioni estreme, persino dentro la Lubjanka o nelle camere a gas, riaffiora miracolosamente qualcosa di astorico e di antistorico. È una energia, una forza talmente irrazionale da apparire sciocca, autolesionistica; una forza irriducibile proprio perché irragionevole, folle, al di sopra della valutazione del bene e del male, che quindi nessuno riesce a controllare e nessun apparato riesce a soffocare. 

    Questa forza connaturata nell’uomo è la forza della bontà compassionevole, nel senso non pietistico e peloso, ma nel senso della condivisione della passione (cum-passione), della sofferenza dell’altro. È la forza della bontà offerta a mani nude, fragile, debole eppure invincibile, perché non calcola convenienze e non chiede contropartite né terrene né ultraterrene. “La bontà, amore cieco e muto è il senso dell’uomo il suo unico, vero elemento di immortalità”.

Chi volesse una mappa per orientarsi tra personaggi e scenari di guerra può andare sul link sotto. E' fatta veramente molto, molto bene.

https://www.italianacontemporanea.org/wp-content/uploads/2021/08/0Polittico.pdf