È un piccolo capolavoro di raffinatezza. In cui, se c’è
qualcosa di eccessivo è ancora la raffinatezza. Una cosa alla Henry James, per
capirci. Intanto raffinatezza stilistica: una sintesi tra lirismo e modernismo
veramente riuscita. E poi raffinatezza del modo in cui è costruita la trappola
della trama, dello scavo psicologico e infine della tecnica con cui viene
girato davanti al lettore il prisma delle possibilità, dei possibili esiti.
Finchè con un colpo secco, nell’ultima paginetta, più col non detto che con un
vero colpo di scena, il giro non si ferma e la soluzione quella è, piaccia o
non piaccia. Il tutto in ottanta pagine.
Al centro della storia c’è la crudeltà delle amputazioni
psicologiche che la prima grande guerra produsse nella testa di milioni di
uomini, anche di quelli che non era riuscita a martoriare nel corpo. Una
amnesia, in questo caso, che è anche un tentativo inconscio di emancipazione
maschile. E c’è la grande rivoluzione che quella guerra nel frattempo scatenava
nelle case, quella che fu chiamata ”home war” e che le prime grandi scrittrici
del femminismo inglese raccontarono così bene. Le donne fin lì schiacciate dal
puritanesimo vittoriano si ritrovarono all’improvviso sole, disperate, ma anche
assolutamente libere nel doversi assumere la responsabilità di scendere in
campo, di decidere della loro vita, di quella dei loro figli e spesso di quella
dei loro uomini. Sono tre donne, come tre guerriere delle retrovie, le
protagoniste. E quella delle tre che fa da voce narrante è la più ambigua, la
più sfuggente e anche la più riuscita, come personaggio.
Se c’è una cosa che colpisce dell’autrice, una vera,
autentica donna emancipata dai pregiudizi che furono e anche da quelli
femministi che dovevano venire, è la feroce precisione con cui le manovra, le
sue tre pedine. Lo fa con una libertà, una autonomia di presupposti culturali
davanti a cui soprattutto un uomo non può che alzare tanto di cappello