Non è uno degli autori preferiti dallo scarabookkiante. Ha il gusto perverso
della complicazione gratuita; il che di per sé, per uno che racconta storie non
è necessariamente un difetto. E’ che il groviglio di temi che mette su, a
venirne a capo, si riduce ad una serie di esili fili, a poco più di un catalogo
di spunti e di suggestioni.
E’ così anche e forse soprattutto in questo romanzo.
L’identità. Il ruolo centrale del Caso. La storia, la scrittura e l’assenza di
significato e di senso. La città come non luogo. La fragilità della membrana
che divide l’universo del reale da quello del possibile (nell’ultimo libro,
pare bellissimo, lì si è tornato a centrarsi). Auster sparpaglia questo ed
altro in tre storie ad incastro come fosse un grande puzzle, lasciando al
lettore il compito di immaginare, sistemare, estrarre, scartare, con margini di
discrezionalità così ampi da indurre alla fine il sospetto che un disegno non
c’è. Naturalmente gli esegeti diranno che esattamente quello è lo scopo. E’
così probabilmente, ma la sensazione di essere davanti ad una arzigogolata ed
inutile esibizione autoreferenziale resta, almeno per quanto ci riguarda.
D’altronde i post-modernisti, chi più chi meno, fanno tutti spesso quest’effetto,
Pynchon in testa.
Però. Però. Però….
Però Auster è un grande artigiano della frase e della
concatenazione delle frasi. Elegante, raffinato, bravissimo nel lavoro di
cesello stilistico. Difficile abbandonarlo (tanto quanto è facile abbandonare
altri post-modernisti). Dal punto di vista della prosa, un vero piacere da
leggere.
Dunque, tirate le somme, non stupisce che questo romanzo
si sia costruita la fama di capolavoro (che non è). La tentazione di leggerlo
lasciando stare significati e approfondimenti (o magari capendo poco o niente
di un senso che non si capisce se c’è e dov’è) lasciandosi rapire e basta dalla
bellezza di un gran raccontatore di storie è grande. E d’altronde, va anche
bene così.