mercoledì 15 novembre 2017

Trilogia di New York di Paul Auster


Non è uno degli autori preferiti dallo scarabookkiante. Ha il gusto perverso della complicazione gratuita; il che di per sé, per uno che racconta storie non è necessariamente un difetto. E’ che il groviglio di temi che mette su, a venirne a capo, si riduce ad una serie di esili fili, a poco più di un catalogo di spunti e di suggestioni.

E’ così anche e forse soprattutto in questo romanzo. L’identità. Il ruolo centrale del Caso. La storia, la scrittura e l’assenza di significato e di senso. La città come non luogo. La fragilità della membrana che divide l’universo del reale da quello del possibile (nell’ultimo libro, pare bellissimo, lì si è tornato a centrarsi). Auster sparpaglia questo ed altro in tre storie ad incastro come fosse un grande puzzle, lasciando al lettore il compito di immaginare, sistemare, estrarre, scartare, con margini di discrezionalità così ampi da indurre alla fine il sospetto che un disegno non c’è. Naturalmente gli esegeti diranno che esattamente quello è lo scopo. E’ così probabilmente, ma la sensazione di essere davanti ad una arzigogolata ed inutile esibizione autoreferenziale resta, almeno per quanto ci riguarda. D’altronde i post-modernisti, chi più chi meno, fanno tutti spesso quest’effetto, Pynchon in testa.

Però. Però. Però….

Però Auster è un grande artigiano della frase e della concatenazione delle frasi. Elegante, raffinato, bravissimo nel lavoro di cesello stilistico. Difficile abbandonarlo (tanto quanto è facile abbandonare altri post-modernisti). Dal punto di vista della prosa, un vero piacere da leggere.

Dunque, tirate le somme, non  stupisce che questo romanzo si sia costruita la fama di capolavoro (che non è). La tentazione di leggerlo lasciando stare significati e approfondimenti (o magari capendo poco o niente di un senso che non si capisce se c’è e dov’è) lasciandosi rapire e basta dalla bellezza di un gran raccontatore di storie è grande. E d’altronde, va anche bene così.