Opera filosofica in versi di straordinaria ed insondabile bellezza. Posta sul crinale tra il bisogno di trascendenza e la disperata percezione del Vuoto. Tra il vitalismo di un romanticismo ottocentesco ormai maturo e il cupio dissolvi del novecento che si affaccia. Tra la vaga intuizione di un nuovo misticismo “scientifico” e il nichilismo. Non si finisce mai negli anni di rileggerla, interpretarla, per scovarci dentro nuovi lampi di luce sulla condizione umana e sul senso dell’essere.
Sulla condanna solo umana di saperci mortali.
Sulla
acquisizione faticosa della consapevolezza che Dio è morto e che “La loro
chiesa comprata bell’e fatta linda e chiusa e delusa come un ufficio postale di
domenica” non è più in grado di dare nessuna risposta.
Sull’orgoglioso
tentativo di rifugiarsi nell’arte per tentare di trovare lì un modo per capire,
una via di salvezza dall’oblio per noi e per ogni cosa che ha avuto il dono o
la condanna di essere; oppure forse per ricavarne solo una consolazione. Perché
“il bello non è che il tremendo al suo inizio”.
Sulla orgogliosa rivendicazione dell’accettazione del dolore della condizione umana come l’unica via per praticare e nobilitare l’arte, quell’unica forma di creazione e di illusione di permanenza a cui possiamo accedere. Prima che anche il privilegio umano del “Dire” e del percepire la bellezza vada perduto nel silenzio dell’ ”eterno imperturbabile”.