I libri di docufiction, romanzi costruiti su un fatto vero, (sul solco tanto per capirci, di “A sangue freddo” di Capote), nella loro anomalia rispetto al romanzo classico, fanno venir fuori bene la ragione fondativa del romanzo come forma espressiva. Lagioia qui come tutti i romanzieri cerca nella narrazione un laboratorio dove poter ricostruire ed osservare un pezzo della realtà che lo riguarda intimamente per qualche aspetto che avverte misteriosamente e di cui ha bisogno di diventare consapevole prima e di tentare di comprendere e di nominare (di dargli un nome) poi.
Il romanzo poi non conduce a nessuna
verità e tanto meno è la forma di espressione di una verità già posseduta. Il
suo dono è rimarcare l’ambiguità ultima del reale (cose, persone, fatti
relazioni che tra cose, persone e fatti si instaurano), evidenziarla e metterla
davanti alla riflessione del lettore, al suo gusto, alla sua storia, alla sua
sensibilità.
Quando si legge un romanzo serio, che
vale, come questo, non bisogna mai dimenticare la ragione per cui esiste il romanzo.
Quella cioè di rispondere al bisogno di tentare di rappresentare e nominare le
cose che ci circondano e che ci accadono. E di farlo accendendo il tipo giusto
di luce che faccia emergere un dettaglio, una spiegazione, un senso, un
rapporto causa-effetto che altrimenti non riusciremmo a vedere.
Ma (e qui sta per l’appunto la cosa veramente importante) se vuoi farlo bene non devi scrivere pensando di voler raggiungere la Verità. Men che meno di averla già in tasca e di dover solo trovare il modo di raccontarla.
Il romanzo vero approda nel suo porto estremo quando raggiunge l’ambiguità, la rappresentazione in parole della complessità delle cose: oggetti, fatti e persone. E perimetrando questa complessità, il romanzo offre crinali e frontiere da cui è possibile guardare alla bivalenza possibile di ogni scelta e di ogni visuale. Il romanzo è la partita doppia della realtà.
Il libro ha al centro da una parte il
Male che emerge da un fatto di cronaca e dall’altra Roma. L’autonomia del male
da un lato e il senso della
responsabilità individuale e della colpa dall’altra. La leggerezza di Roma da
un lato e la sua cinica ferocia dall’altra.
Il raffronto tra il Male nella Roma del Pasticciaccio e quello nella Roma del nostro tempo spaventa. La rabbia che si alimenta di disperazione, intesa come la somma di impotenza e di mancanza di capacità di immaginare un futuro migliore.
Ultima annotazione. La differenza
stilistica tra questo romanzo e “La ferocia” è quanto di più radicale si possa
imaginare. Segno di bravura vera.