domenica 14 novembre 2021

Le cure domestiche di Marilynne Robinson

 



Come in Gilead impressionano la potenza visionaria e la straordinaria  capacità di costruire suggestioni che ha la Robinson. Basta guardare alla elevazione quasi mitologica a cui fa assurgere gli elementi del paesaggio in questo romanzo: il lago e l’acqua, il ponte e il treno. Il treno, in particolare e soprattutto quello che all’inizio della storia deraglia nell’acqua, scompare e resta però una presenza costante in tutto il racconto è una delle cose più belle del libro.

Un po’ meno, ma anche qui come in Gilead, si affaccia a tratti un dono declamatorio da predicazione che può disturbare. Ma d’altronde al centro della narrativa della Robinson c’è una visione mistica più che religiosa della vita e dell’esistente. Questo, che è il suo primo romanzo, sembra un manifesto, una presentazione delle tematiche che poi svilupperà in tutto il resto della sua opera. Si potrebbe leggerlo come una cartografia, una mappa della ricerca di una via di salvezza, di un rifugio (nell’uso buddhista del termine). Ho provato ad appuntare qualcosa leggendo e pari pari metto in condivisione.

Il primo rifugio  è la casa. E funziona finché il mondo e gli abitanti ne rispettano la sacralità, l’intangibilità. La casa delle “cure domestiche” non è il luogo della famiglia tradizionale o se si preferisce la famiglia che la abita non corrisponde per niente al modo tradizionale di concepirla. La casa è il luogo di convivenza di corpi e menti che sentono di somigliarsi fino a confondersi l’uno con l’altro. Anzi, l’una con l’altra, perché è un mondo, una convivenza di sole donne.

Il secondo è l’assenza, quando la casa, assediata o rifiutata, non riesce a trattenere. L’assenza nella Robinson è una forza che tiene unite più della presenza stessa. Chi va via si impone non tanto nel ricordo quanto nel fatto stesso di non esserci più; nella mancanza rilevata dai pensieri, dai sogni  e dai piccoli miraggi quotidiani. Più che se avesse continuato a rimanere sotto il velo delle abitudini, del corso omologante della vita e delle cose (c’è una paginetta sulla possibilità della  “non morte” di Helen, della madre, che è da incorniciare). Vince chi scompare senza portarsi dietro niente, chi sceglie di andare, abbandonando i legami e le cose, di accettare di “non avere niente, perché alla fine crolleranno anche le nostre ossa”. Chi resta nel/del mondo può solo presidiare un sepolcro vuoto.

Infine il buio, quando la realtà divide, rompe, non si fa più vivere. Il buio della Robinson non è un’oscurità terrificante. E’ il luogo che ciascuno si porta dentro in cui scampare dall’intollerabile e dalla morte; in cui tutto si scioglie e tutto torna a ricomporsi nell’indistinzione di una comune matrice. E’ una visione  religiosa ricollegabile alla teologia negativa del Dio che appunto si manifesta nel nulla a cui tutto ritorna, nell’assenza, nel buio, appunto. Quella è l’unica casa che non viene abbandonata e che non brucia.