giovedì 13 febbraio 2020

L'onore perduto di Katharina Blum di Heinrich Boll


Un pamphlet (così lo ha definito il suo autore), scritto da uno dei fuoriclasse della parola. Basterebbe, per testimoniarlo, il ritratto di quel personaggio, splendido nella sua ambigua, complessa, respingente e indifendibile innocenza, di Katharina Blum.  I difetti di questo romanzo (lo stile secco/freddo ed un certo tono a metà strada tra il verbale redatto da un burocrate e lo sfogo controllato di un osservatore indignato e coinvolto) sono, insieme con una sofisticata freschezza espressiva, anche i suoi pregi maggiori.  Perché non c’era forse modo più efficace per portare piano, piano e con il giusto attrito il lettore dentro l’emozione con cui lo si voleva far reagire davanti alla macchina mediatica del fango. E davanti agli effetti, che come una inarrestabile reazione a catena, produce in chi ne è vittima, direttamente o indirettamente. Soprattutto, voleva far reagire il lettore davanti ad un modo di fare informazione e di fare il mestiere del giornalista. 
Ed è particolarmente interessante ri/leggerlo nell’epoca del giornalismo diffuso e dei social.

Il presupposto di Boll di raccontare un caso esemplare e non un’eccezione è reso subito evidente dal fatto che chiama "Il Giornale", il quotidiano al centro della storia della povera Katharina. "Il Giornale": cioè il giornale in quanto tale. Ed ha ragione. Perché quel modo che si diceva è nient’affatto un’eccezione, un fatto patologico e dunque anomalo. E' una cosa che riguarda tutti i giornali e tutti i giornalisti. Chi più chi meno, ovviamente, ma assumere quel ruolo significa sempre e comunque, magari inconsapevolmente, caricarsela dentro, quell’attrezzatura mentale. Pochi, pochissimi riescono a non tirarla fuori nemmeno una volta. E a non usarla. Magari con la convinzione di fare con coraggio una “campagna” giusta, di fare giustizia (il giornalista giustiziere, convinto di portare una Verità Buona e Giusta è il peggio che ci sia in quella categoria; e non solo). Basta averla fatta, l’esperienza del lavoro di redazione, soprattutto in “cronaca”, per saperlo. 

Heinrich Boll
Insomma, Boll descrive in controluce quello che è il lato oscuro di quel mestiere, il sottofondo nascosto del bagaglio professionale, della cultura giornalistica. Che è fatta della approssimazione e della superficialità imposte dalla velocità di servizio; poi dall’ansia mercantile di offrire un prodotto “facile”, per cui c’è il mercato più grande; poi ancora dalla tentazione di accarezzare gli istinti e le zone di comfort mentale del lettore; e infine dalla forza di inerzia che fa scivolare verso la spiegazione meno faticosa da scovare e da comunicare. Che di solito si fonda sempre su certi ingredienti-base: i pregiudizi correnti, le teorie complottistiche, l’istinto di azzannare il più esposto o il più debole.  Poi ci sono il cinismo che viene dalla praticaccia quotidiana, la competizione, l’ansia di prestazione, la pressione degli interessi, il condizionamento di un ambiente, di “un giro”. E naturalmente, il narcisismo e la fame di "arrivare". Di fronte alla complessità e all’ambiguità dei fatti e delle persone i danni che si possono fare con questa miscela esplosiva di ingredienti sono terrificanti. E Boll è bravissimo, grazie alle scelte stilistiche e di struttura di cui si diceva, a portarti dentro  a quella complessità, a quell’ambiguità e a quell’inferno. 

Fa una particolare impressione leggere questo romanzo nell’epoca della disintermediazione dell’informazione, del giornalismo diffuso e deprofessionalizzato; nell’epoca dei giornalisti e dei fotoreporter di strada, più o meno occasionali, precarizzati o retribuiti un tot a parola o a foto; nell’epoca dei giornali online, dei blog e dei social.  Serve a ricordarsi che le nuove macchine del fango impastato di fake news e di odio non sono la degenerazione che segue un’epoca d’oro. Tutt’altro. Sono, sotto questo aspetto, semplicemente il manifestarsi in forma nuova, pret-a-porter, di un vecchio guardaroba che prima era chiuso nelle redazioni, a disposizione solo dei professionisti. 

Non è per niente certo che fosse meglio prima.