Un pamphlet (così lo ha definito il suo autore), scritto da uno dei fuoriclasse della parola. Basterebbe, per
testimoniarlo, il ritratto di quel personaggio, splendido nella sua ambigua, complessa, respingente e indifendibile innocenza, di Katharina Blum. I difetti di questo romanzo (lo stile
secco/freddo ed un certo tono a metà strada tra il verbale redatto da un
burocrate e lo sfogo controllato di un osservatore indignato e coinvolto) sono, insieme con una sofisticata freschezza espressiva, anche i suoi pregi
maggiori. Perché non c’era forse modo
più efficace per portare piano, piano e con il giusto attrito il lettore dentro l’emozione con cui lo
si voleva far reagire davanti alla macchina mediatica del fango. E davanti agli
effetti, che come una inarrestabile reazione a catena, produce in chi ne è
vittima, direttamente o indirettamente. Soprattutto, voleva far reagire il
lettore davanti ad un modo di fare informazione e di fare il mestiere del
giornalista.
Ed è particolarmente interessante ri/leggerlo nell’epoca
del giornalismo diffuso e dei social.
Il presupposto di Boll di raccontare un caso esemplare
e non un’eccezione è reso subito evidente dal fatto che chiama "Il Giornale", il
quotidiano al centro della storia della povera Katharina. "Il Giornale": cioè il
giornale in quanto tale. Ed ha ragione. Perché quel modo che si diceva è
nient’affatto un’eccezione, un fatto patologico e dunque anomalo. E' una cosa
che riguarda tutti i giornali e tutti i giornalisti. Chi più chi meno,
ovviamente, ma assumere quel ruolo significa sempre e comunque, magari
inconsapevolmente, caricarsela dentro, quell’attrezzatura mentale. Pochi,
pochissimi riescono a non tirarla fuori nemmeno una volta. E a non usarla.
Magari con la convinzione di fare con coraggio una “campagna” giusta, di fare
giustizia (il giornalista giustiziere, convinto di portare una Verità Buona e Giusta è il peggio che ci sia in quella
categoria; e non solo). Basta averla fatta, l’esperienza del lavoro di redazione,
soprattutto in “cronaca”, per saperlo.
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Heinrich Boll |
Insomma, Boll descrive in controluce quello che è il lato oscuro di quel mestiere, il sottofondo
nascosto del bagaglio professionale, della cultura giornalistica. Che è
fatta della approssimazione e della superficialità imposte dalla velocità di
servizio; poi dall’ansia mercantile di offrire un prodotto “facile”, per cui
c’è il mercato più grande; poi ancora dalla tentazione di accarezzare gli istinti e le zone di comfort mentale del lettore; e infine dalla forza di inerzia che fa scivolare verso la spiegazione meno faticosa da scovare e da comunicare. Che di solito si fonda sempre su certi
ingredienti-base: i pregiudizi correnti, le teorie complottistiche, l’istinto
di azzannare il più esposto o il più debole.
Poi ci sono il cinismo che viene dalla praticaccia quotidiana, la
competizione, l’ansia di prestazione, la pressione degli interessi, il
condizionamento di un ambiente, di “un giro”. E naturalmente, il narcisismo e la fame di "arrivare". Di fronte alla
complessità e all’ambiguità dei fatti e delle persone i danni che si possono
fare con questa miscela esplosiva di ingredienti sono terrificanti. E Boll è
bravissimo, grazie alle scelte stilistiche e di struttura di cui si diceva, a
portarti dentro a quella complessità, a
quell’ambiguità e a quell’inferno.
Fa una particolare impressione leggere questo romanzo
nell’epoca della disintermediazione dell’informazione, del giornalismo diffuso e deprofessionalizzato; nell’epoca dei giornalisti e dei
fotoreporter di strada, più o meno occasionali, precarizzati o retribuiti un
tot a parola o a foto; nell’epoca dei giornali online, dei blog e dei
social. Serve a ricordarsi che le nuove
macchine del fango impastato di fake news e di odio non sono la degenerazione che
segue un’epoca d’oro. Tutt’altro. Sono, sotto questo aspetto, semplicemente il
manifestarsi in forma nuova, pret-a-porter, di un vecchio guardaroba che prima
era chiuso nelle redazioni, a disposizione solo dei professionisti.
Non è per niente certo che fosse meglio prima.