
Il primo è che è un romanzo storico in forma letteraria sul
pezzo di storia dell’Europa recente più importante e più terribile. Per chi ne
sa solo quel che ha trovato sui media, è un’ottima occasione di saperne di più e meglio. Interessante
soprattutto la ricostruzione dello spessore (si fa per dire) umano dei
protagonisti e, a fronte, del credito che si sono conquistati e di cui ancora
continuano in larga parte ancora a godere nel loro paese.
Il secondo è che è un romanzo non manicheo. Sta da una
parte, senza sconti e anche senza rinunciare alla indignazione, ma non rinuncia a vedere cosa c’era
dall’altra parte, le radiuci storiche e politiche di quel che è successo.
Il terzo è che mette bene a fuoco che dall’altra parte c’era
la malattia tutt’altro che solo serba e tutt’altro che debellata
dell’identitarismo nelle sue componenti nazionalistica, etnica e
religiosa. In una fase in cui si
risente parlare di sovranismo, si torna a riproporre la patria in versione
mitica ed in funzione isolazionistica, è
una lettura salutare. Come il richiamo di un vaccino.
Il quarto è che evidenzia bene il ruolo centrale che il
rivendicazionismo vittimistico gioca sempre nell’innesco e nell’alimentazione
del motore di questo tipo di macchina
ideologica. Che accada per un piccolo paese come la Serbia, con una storia
tutt’altro che speciale e spesso segnata da episodi indifendibili, significa
solo che il nazionalismo può attaccarsi a qualsiasi pezzettuccio di terra
abitato e a qualsiasi comunità.
L’ultimo pregio sta nella riflessione che stimola
su quanto vivo possa essere il processo psicologico di mitizzazione del padre
in certe figlie. E quanto drammatico possa poi diventare l’impatto con la
realtà.
Filmato famiglia Vladic
Filmato famiglia Vladic