lunedì 28 maggio 2018

Lamento di Portnoy di Philip Roth



Non c’è modo migliore di lenire il dolore per  la morte di uno scrittore sentito come amico, profondamente amico, che rileggere il libro col quale l’amicizia è nata. Non è necessario che sia il suo libro migliore (nel caso di Roth resta Il teatro Sabbath). Quel che importa veramente è provare a ritrovare nei meandri della memoria le emozioni che ci sono venute dal primo sguardo sul suo mondo. Se non altro, è una cosa che serve  a capire com’è che poi abbiamo dovuto leggere praticamente tutto quello che ha scritto; com’è che nei successivi decenni, almeno una volta l’anno abbiamo sentito  il bisogno di ritrovarlo. E siamo sicuri che adesso che lui non c’è più, questo bisogno lo sentiremo ancor più forte.
Philip Roth

Amicizia a parte, rileggendo Il lamento di Portnoy di sicuro capisci perché in così tanti abbiamo voluto bene a Roth e perché in così tanti lo hanno detestato.  Anzi, forse dei suoi libri questo è quello che meglio funziona come crinale, linea di demarcazione dei due campi. E tale è stato, fin dall’inizio. Alexander Portnoy si abbandona ad una  confessione troppo aperta, troppo spudoratamente esibita e compiaciuta e troppo oscenamente sincera, per non fare questo effetto. E l’ha scritto nel ’69, quando pubblicare una cosa del genere richiedeva un coraggio difficile da capire oggi.  Qualcuno dei detrattori disse che cercava (e ottenne) il successo con lo scandalo. Può darsi. Ma questo è solo un pezzo di una ragione più grande: Roth viveva per scrivere. E per  essere scrittore fino in fondo (successo compreso) doveva permettersi di raccontare senza ipocrisie e senza nascondere niente, fino al fondo della sincerità, il modo in cui vedeva il mondo che gli stava attorno. Lo ha fatto senza aspettarsi di buono altro che il piacere di esprimersi ed essere letto. Di essere detestato a lui ha sempre importato poco. Perché non c’è mai in lui nessuna vocazione didattica o filosofica,  nessuna missione etica o politica o di qualsiasi altro tipo, nessuna velleità di consolazione o di immortalità. Scrittore e basta,  per il piacere di scrivere e condividere. E proprio per questo obbligato solo alla sincerità. Roth è ritenuto comunemente osceno e invece forse è lo scrittore intellettualmente più puro e pulito del nostro tempo.
Ha scritto libri quasi tutti per niente cupi. In cui, anzi, si ride spesso e di gusto. L’ironia e ancor più l’auto-sarcasmo più spietato è importante in Roth. Si ride tanto leggendo Portnoy, ma la cosa che più fa ridere è provare a pensare mentre si legge (come disse una volta che faceva lui mentre scriveva) a tutte le integraliste femministe, ai bigotti di ogni fede, ai benpensanti di tutte le collocazioni (secondo me, i cosiddetti progressisti persino più  dei conservatori) che hanno identificato l'autore col personaggio e  si sono incazzati con tutti e due. Effetto, questo della identificazione di Roth con i suoi personaggi, per nulla casuale e del tutto voluto. Se Roth ha inventato una quantità di finti alter ego, come Portnoy e Zuckermann, lo ha fatto solo per far pensare i detrattori di volersi nascondere e per alimentare la caccia a stanarlo e rinfocolare equivoci e disprezzo. Tanto quanto in questo modo si teneva legati  i lettori amici. La cosa deve averlo molto divertito perché lo ha fatto tutta la vita, in modo scoperto, beffardo, insolente. 
Portnoy  è veramente, per chi lo detesta, il Roth "imperdonabile". Ed è quello con cui si diventa di più e per sempre suo amico.  Perché, se il Sabbath che verrà avrà la morte davanti e per questo potrai se non perdonarlo, almeno usargli comprensione, Portnoy, senza un attimo di esitazione, a norma di tutti i regolamenti e codici "lo condannerai a cinquemila anni più le spese”. Non ci sono e non ci saranno mai nei suoi libri che verranno percorsi di elevazione, finali edificanti, ritratti elegiaci. Non c'è perdono e non c'è consolazione. Solo umanissima condivisione. Per questo, con Roth la tematica della colpa, centrale nella letteratura di matrice ebraica, si eleva a categoria universale, fino a toccarci tutti. Qui, nel suo primo romanzo importante. tutto questo c’è già, in forma nuda e compiuta.
Ci   trovi i tormenti dell'infanzia e dell’adolescenza, raccontati con una  sfrontatezza senza pietà, soprattutto verso di sé. Ci trovi miscelati in pari misura il bisogno ed il rifiuto di appartenenza: alla famiglia, all’America, alla religione e al ricordo degli avi, ad una donna. Ci trovi nella stessa schizofrenica misura la negazione rabbiosa e l’adesione accorata e nostalgica alle sue  identità: ebreo, progressista, americano, maschio, amante, figlio. Ci trovi  in contemporanea il bisogno (per spirito razionale e ingiunzioni genitoriali) ed il rifiuto (per velleità di profanazione e liberazione, per illusione di onnipotenza  e poi di immortalità) di controllare le pulsioni sessuali. Ci trovi l’ansia di autonomia e di solitudine e il desiderio di comunione e tenerezza. Ci trovi, prima e alla base di tutto,  l’esigenza di fare i conti con un certo tipo di rapporto con la madre, che in questo libro è una figura letteraria monumentale. Molti hanno parlato per quasi tutti i personaggi di Roth di eterno adolescente (cominciò Natalia Ginzburg, che pure ne aveva percepito subito la grandezza), ma il personaggio di Roth è spesso fissato ad un’età molto, molto più remota; addirittura quella che precede nel bambino la fase edipica. E gli straordinari accomodamenti che tenta per sopravvivere sono insieme comici e commoventi.
Poi, tutti dicono che dovevano dargli il Nobel e che a lui è dispiaciuto molto che gliel’abbiano negato, ma se leggi questo libro pensi che abbiano fatto bene a non darglielo. Il vero premio è non averglielo dato.