venerdì 23 febbraio 2018

Racconti di Bernard Malamud



Non sono tutti perfetti questi racconti, ma uno che si possa definire brutto o sciatto non c’è. Essendo in ordine cronologico è interessante vedere come cambia lo stile di uno stesso scrittore, un grande scrittore, nel corso dei decenni. Come ci sia una progressiva asciugatura della aggettivazione, un maggior spazio tra narratore e scena narrata, una ricostruzione dei dialoghi più essenziale, un disegno più sicuro di personaggi e trame. Si osserva meglio tutto questo in Malamud perché la qualità della sua prosa è già alta in partenza e alla fine è di una armonicità che incanta. L’evoluzione risalta meglio perché invece non cambiano la tonalità di fondo, il modo in cui il narratore “sente” il mondo, il tipo di personaggio. Ci sono cose proprio belle tra quelli antichi (“La prigione” per esempio, ma anche ”La bambina che rubava cioccolata”) e tra quelli dell’età matura (come “La corona d’argento” o “A riposo” o “La dama del lago”). Insomma è una di quelle raccolte che ti fanno pensare che un libro di racconti aperto a cui tornare devi averlo sempre.

Malamud scrive cose che trasmettono tristezza, è vero. Però è una tristezza senza complicazioni filosofiche e senza sbavature emotive. E’ tristezza e basta. Quando ti racconta di certe vite te la fa vedere come una cosa naturale, persino dolce. Non ci sono mai “tragedianti” o predicatori del pessimismo cosmico; non ci sono toni strappacore e men che meno c'è rabbia.

Roth

Gli uomini di Malamud sembrano quelli di Roth devitalizzati, esangui. Non hanno un brutto carattere; non sono estroversi e incontenibili; non sono uomini che si esibiscono per sentirsi vivi; non hanno mai davvero nutrito illusioni di solidità (della famiglia, del sogno americano, dell’amore di una donna, di un talento naturale o di altro). E’ spesso l’uomo “ferito dove fa più male: nei suoi sogni”. Soprattutto non c’è il vitalismo sessuale, quell’energia dei sensi che in Roth diventa ragione di vita ed estremo rifugio. I protagonisti di queste storie sono dei Sabbath senza teatro e senza l’ossessione del sesso. Anche quando hanno qualche scatto vitale, qualche flebile illusione alimentata dal desiderio, tutto finisce per essere inesorabilmente frustrato e riassorbito dal combinarsi delle cose. La realtà in Malamud è più indifferente che ostile; avversa senza intenzione, solo perché è così che vanno le cose.
Malamud
Epperò si rimproverano sempre qualcosa. Al centro del loro dialogo interiore c’è il senso di una colpa da espiare. E dietro si intuisce l’antica percezione ebraica di una irrimediabile inadeguatezza al ruolo di “eletti” che il loro Dio gli ha assegnato. Se questa cosa c’è però, Malamud la supera, va oltre. Non si è mai considerato d’altronde uno scrittore ebraico. Semmai uno scrittore americano che non crede nel sogno delle infinite opportunità. E anche questa connotazione gli sta stretta. Malamud (quella è la sua vera grandezza) descrive una condizione umana che sente come universale.

E lo stesso Roth, che gli era amico, racconta che lui stesso viveva così, con quella tranquilla tristezza. Vedeva una consolazione solo nella scrittura. Poco prima di morire disse: "Scrivere racconti non è affatto un brutto modo di trascorrere la propria solitudine".