giovedì 18 gennaio 2018

Keyla la rossa di Isaac Bashevis Singer


Di un Singer si tratta. E dunque: qualità della scrittura garantita, personaggi e scenari belli come in un quadro di impressionisti, i temi della grande letteratura di matrice ebraica. Per chi ama il genere, per chi ama i Singer, un’altra perla.


Qui la storia, con qualche acrobazia di troppo nella trama forse, ha al centro una prostituta e il clima narrativo è colorato e cupo nello stesso tempo. Prima in una Varsavia descritta con tinte e sapori dell’epoca, a metà tra una capitale europea ed uno shtetl e poi in una New York che sembra una Varsavia impazzita. Da una parte racconta la povertà, l’alcool, il richiamo dei sensi, la superstizione, la follia, la prostituzione, la criminalità; e dall’altra le tradizioni famigliari, il rispetto del calendario delle festività dell’ebraismo ortodosso, i suoi rituali, il suo cibo kosher, la sua rigidità, la sua pretesa di regolare ogni aspetto della vita. E racconta l’affacciarsi delle idee e delle spinte sociali che riempiranno l’altra metà del secolo: verso l’emancipazione femminile, la liberazione sessuale, i diritti civili, l’egualitarismo.

Singer maneggia l'eccesso di trama e temi senza deprimere troppo la leggibilità.  Il filo rosso che attraversa tutto il racconto è il potere dei sensi, l’obnubilamento prodotto dal desiderio (non caso l’alcool gioca un ruolo decisivo in questi passaggi e quando parla di amore parla di ubriacatura). Un desiderio che confina con la spinta ad un cupio dissolvi, passando per la rottura di tutti i vincoli morali. Un fattore, quello del richiamo dei sensi, che nella vita e nella letteratura ebraica ha un ruolo centrale, energizzante e insieme fonte di grandi sofferenze. Qui è messo molto bene in evidenza. E al centro c’è Keyla, il ritratto potente di una donna travolgente e fragile insieme; fortissima nei suoi istinti e nel suo attaccamento alla vita e in balia di forze più grandi di lei, sempre sull’orlo della disperazione. Singer l’ha costruita e usata come una metafora generale della condizione umana e del rapporto con un Dio inutilizzabile e insieme imprescindibile.

Sembra quasi, leggendo il libro in controluce, di leggere l’idea dostoevskiana che “se Dio non esiste allora tutto è permesso”. Ma è un’impressione riduttiva. In realtà Singer ha descritto dalla visuale dell’ebraismo il crollo non solo di una fede, ma di un mondo, quello dell’ebraismo ashkenazita e soprattutto il crollo di tutte le certezze filosofiche nella prima metà del novecento. Mentre si affacciano i nuovi orizzonti non nutre nessuna speranza, in nessuna rivoluzione e neppure nell’America della libertà e delle opportunità. Piuttosto che la morte di Dio sembra suggerire una visione pessimistica generale dell’uomo, esposto a forze interne ed esterne che non riesce a controllare e gestire. Né con la religione, né con la scienza, né con l’impegno civile, né con l’amore. E neppure “Nessuna forma d’arte poteva mitigare l’ansia dell’uomo, l’angoscia, l’umiliazione, le passioni e la paura della morte…..L’amara verità era che non esisteva rimedio per alcun male.”