giovedì 21 dicembre 2017

Mandate a dire all'imperatore di Pierluigi Cappello



Qualcuno dice che Cappello è il poeta del terremoto. Essendo poeta, il terremoto in Cappello è macerie e metafora; è  tragedia collettiva e personalissimo vissuto poetico.

E’ terremoto quello che nel ’76 manda giù le case in Friuli. E terremoto è anche  un incidente che nell’83 gli paralizza metà del corpo. In tutti e due i casi crolla qualcosa: mura e un mondo di relazioni e di sentimenti; crollano ponti e crollano progetti e abitudini.
Terremoto è però anche qualcosa che apre dolorosamente spazi e che quindi porta una nuova occasione di libertà. Lo è per il bambino che si ritrova a giocare tra i prefabbricati del post-terremoto, in impreviste nuove praterie, lasciati lì senza guinzaglio dai genitori improvvisamente preoccupati per altro. E lo è anche per l’uomo in carrozzina: la metà del corpo che improvvisamente non ha più gli apre l’orizzonte della letteratura, della poesia. Delle parole, Cappello che studiava per diventare pilota di aerei, fa un nuovo strumento per volare. E’ il Moby Dick di Melville a fargli da primo istruttore di volo; e Melville era un poeta tragico in prosa.

Poi in questa raccolta c’è l’autostrada: l’A3, la Palmanova-Udine-Tarvisio. Anche quella a suo modo fu un terremoto. Lo sapevamo già, noi scarabookkianti; perché lo si capisce passandoci e  anche per analogia. Scendendo più a sud, più vicino a noi, l’autostrada del Gran Sasso ha prodotto lo stesso effetto. Basta percorrere il  valico delle Capannelle e attraversare i paesi per rendersene conto. Molte poesie nascono dal sisma esistenziale che quell’autostrada produce nella geografia e nella storia degli uomini che vivevano attorno al suo paese, a Chiusaforte. Rompe un isolamento, preannuncia la cancellazione di confini, sconvolge un universo, insomma. Modifica insieme con le distanze, consuetudini, coordinate mentali, un panorama, meccanismi di comunicazione, un equilibrio antico di luoghi, oggetti e pensieri. Ammucchia come detriti ricordi, facce, gesti, storie imprimendogli con una luce nuova il marchio di qualcosa di irripetibile che va a  trascolorare.  

C’è un denominatore comune in queste poesie, è fatto da due cifre: la sua voce, il registro musicale, frutto del miracoloso bilanciamento di una accorata partecipazione e di un sorriso appena accennato, ma dolce, con un fondo di gioia di esserci. E poi il tema della perdita di qualcuno o di qualcosa, che ancora, da qualche parte, in qualche modo continua a vivere; ed è quello il lutto più vero, quello più duro da portare.

“ho fatto un buon tratto di strada, ormai,
e sono stato tuo figlio e sono stato tuo padre
e conosco i gesti che non si spezzano davanti al dolore
l’incandescenza dell’istante che li ha generati
la tua mano sulla mia fronte
il palmo della mia sul dorso della tua
che non so come, non so dove
mi portano ancora con te.”


(da “La neve che sei stato”)