giovedì 12 ottobre 2017

Questa libertà di Pierluigi Cappello



Cinque racconti autobiografici, l'unica opera in prosa, di un grande poeta italiano. Uno di quelli, dei pochi poeti contemporanei  italiani, che hanno fatto una poesia non arbitraria e non autoreferenziale. 
Cappello ha avuto davvero la capacità di spremersi le parole da dentro, come gli piaceva dire: “io non uso la poesia per comunicare; io con la poesia mi esprimo, cioè spremo la parola dal mio corpo, dalle cose che mi circondano”.
Questa aderenza al proprio corpo martoriato, alla realtà,  il suo rimanere ancorato alle cose è, insieme con l’esattezza della sua parola,  la qualità che fa di lui un grande poeta. Fa un po’ pensare alla Szymborska, per la capacità descrittiva, per il saper racchiudere la concretezza di un mondo e una storia in pochi versi.

Pierluigi Cappello
La sua è una storia triste: ha avuto una vita terribile, conclusasi pochi giorni fa, ancora giovane, con una lunga malattia; e segnata prima dal terremoto e poi da un incidente che giovanissimo lo paralizzò. Il suo mondo è il Friuli cupo delle montagne, del confine, delle caserme, della guerra fredda e degli inverni freddissimi, interminabili; e infine quello degli ospedali e  della povertà, finché per i meriti artistici non gli hanno dato il vitalizio della legge Bacchelli. Una storia ed un mondo che ti possono infettare con il virus inguaribile dell’infelicità, se non hai uno strumento per vaccinarti e scovare dentro di te gli anticorpi. La sua salvezza attraverso la lettura, la letteratura, la parola della poesia è il filo rosso di questi racconti;  sono una consolazione per tutti quelli che alla lettura hanno assegnato un posto importante nella loro vita.

Il racconto del dolore di Cappello ha questo potere potere incredibile di dare consolazione. Viene restituito nelle sue parole spremute, come qualcosa con cui convivere, in un’accettazione contemplativa, che gli restituisce un senso e gli conferisce una sua amara dolcezza:

“Le parole con me si sono sempre fatte avanti,
lasciandomi l’idea che il dolore
può essere compreso.
Che il dolore può essere portato dentro
intatto e inoffensivo, come un proiettile
che si è fermato accanto al cuore.”

Nella lingua friulana c'è una parola bellissima, "inniò", che si potrebbe tradurre come "in nessun dove", un non luogo. Che è l'approdo pacificante a cui Cappello ci conduce. Ed è lì che la sua poetica e la sua sofferenza assumono un valore universale.
E' anche il titolo di una delle sue poesie più belle:

Inniò

E cuan’ che tu sarâs già muart, ma muart
chês tantis voltis dentri une vite
ch’a si à di murî, alore slargje ben i tiei vôi
a la cjavece dal sium
e clame cun te ogni bielece ch’a ti bisugne
e intal rispîr di chel mont, met dentri il to:
 cjamine pûr cun pîts lizêre e sporcs

come chei di chel che sivilant al va par strade
ma tant che cjaminant su un fîl di lame fine
e al indulà che tu i domandis
lui, ridint, a ti rispuint
cence principi o pinsîr di fin:
«Jo? Jo o voi discôlç viers inniò»,
i siei vôi il celest, piturât di un bambin.


In nessun dove

E quando tu sarai già morto,
ma morto quelle tante volte dentro una vita
che si deve morire, allora allarga bene i tuoi occhi
alla cavezza del sogno
e chiama con te ogni bellezza di cui hai bisogno
e nel respiro di quel mondo, metti dentro il tuo:

cammina pure con piedi leggeri e sporchi
come quelli di chi fischiettando va per strada,
ma come camminando su un filo di lama sottile,
 e al dove vai che tu gli chiedi,
 lui, sorridendo, ti risponde
 senza inizio o pensiero di fine:
«Io? Io vado scalzo verso inniò»,
i suoi occhi il celeste, pitturato da un bambino.