domenica 12 gennaio 2014

"Verrà la morte e avrà i tuoi occhi" di Cesare Pavese

Questa è una poesia speciale. Prima di suicidarsi Pavese, in preda allo sconforto per un abbandono, fece il miracolo di spingere le parole fino al limite della loro capacità di esprimere il senso che ricaviamo dall’esperienza di vivere. Per andare oltre, in concretezza, in  comprensione, bisogna solo viverle le cose ed avere la sapienza del grande poeta di tradurre la vita in parole.

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.

Scenderemo nel gorgo muti.


Tra i fatti e le persone che ti capitano ce n'è un tipo che ti fa comprendere una cosa importante. La più importante di tutte. Ti fa comprendere com'è che sarà la tua fine, la tua morte; come succederà che sparirai davvero. Con quali occhi ti guarderà la morte.  Lì sta il senso di questa poesia,
È una percezione precisa, sperimentabile. A dartela può essere una vicenda, una storia; spesso é una persona. E magari neppure nulla di speciale, come nel caso di Pavese, un attricetta americana, qui con lui nella foto.

La loro funzione in fondo è semplice. È quella  di farti vivere e provare l'indifferenza verso quel che sei, verso il fatto semplice ed elementare, ma per niente scontato che esisti. Indifferenza quindi verso quel che offri e quel che neghi, verso la tua assenza che incombe tuo malgrado, verso la gioia che chiedi e non avrai, verso il tuo dolore.

Ecco, questa poesia insegna che, se la sai leggere, quella  è con l'esattezza di un solido geometrico la stessa indifferenza con cui l'universo (tranne eccezioni che per quanto numerose e inconsolabili restano irrilevanti) accoglierà la tua morte, il tuo precipitare nel silenzio, nelle abissali distanze del nulla.

Sono per esempio quelli che ti parlano col tono di chi ha da dirti solo che non ha più niente da dirti. E ci tiene, a dirtelo. Perché ci tiene a farti sapere che  ha imparato a prescindere dal dato provvisorio e irrilevante della tua esistenza. Sono quelli che ti guardano senza vederti, puntando un orizzonte in cui semplicemente non sei più iscritto. Sono quelli che trattengono a stento e tentano malamente di mimetizzare dietro le buone maniere la rabbia per il fatto che ancora ti ostini a esserci, anche solo come un muto lamento. Sono quelli che ti hanno già seppellito, con l'elemosina di un centesimo di gratitudine. Ecco, quegli occhi sono gli occhi con cui verrà la tua morte.

È una emozione precisa quella che ha sentito Pavese. Un tuono interiore che possiamo provare tutti. La puoi provare al bar, sul lavoro, in famiglia, alla fine di un amore o di un'amicizia, per un sms o durante un lungo discorso, ma il colpo che senti è lo stesso. Poi magari sparisce, per ritornare dopo anni. Oppure resta come un'eco, come un rumore di fondo, come la risacca del mare.

Su ciascun paesaggio e passaggio della vita puoi legger mille pagine al giorno, ascoltare milioni di racconti di vite altrui, puoi partorire mille pensieri e in questo modo puoi anche arrivarci, a fartene l'idea, ma è il percorrerlo che te lo spiega davvero.

Quella luce che ti fa dire "ecco questa cosa adesso so davvero com'è, come funziona", si accende solo quanto provi l'emozione di farti attraversare da essa. Così come a farti capire davvero cosa accade, a farti prendere una decisione non è il lavoro con cui la ragione ti allinea le cause e gli effetti davanti agli occhi della mente. È quella morsa o quel dolce languore, quel pianto senza lacrime o quella scarica di energia, che ti si genera dentro.

Poi, ci sono storie e persone che ti capitano e che svolgono una strana funzione nella vita. Sono una specie di Giovanni Battista, di muti predicatori, di profeti; che siano consapevoli anticipatori o  povere Pizie non importa. Quel che conta è l'esperienza che ti lasciano e che sta a metà strada tra il farsi un'idea e il vivere.

Imparare a guardare negli occhi la morte forse non è possibile. Proprio perché è vero che certe cose le capisci solo passandoci dentro. E quando lo sguardo della morte ti attraversa davvero dentro, non ci sei semplicemente più e non c'è più niente da capire.
Però se una strada c'è per allenarsi a "sentire" la morte, per fare l'unica cosa saggia che ne possiamo fare (e cioè accettarla) quella è proprio allenarsi all'indifferenza. In questa poesia Pavese riesce a scriverlo questa percezione della morte.

La vita, d'altronde ce l'ha dentro questi meccanismi con cui  si prepara da sé alla morte, anche se non ce ne accorgiamo. Il tranquillo e progressivo distacco di certi uomini e certe donne che sanno invecchiare con saggezza è il frutto di questi meccanismi.
Pavese non li aveva. Davanti all'indifferenza, scelse di addormentarsi per sempre prima di diventar vecchio.

Chi ce l'ha invece comincia a prepararsi con un assecondare  compassionevole l'indifferenza degli altri e  dell'universo intero.  E poi comincia farla propria quell'indifferenza. Con un progressivo e sorridente ritrarsi. Uno scolorirsi. Un allentarsi. Un ridursi all'essenziale.
Infine, riesce a trovare un comodo, caldo, fiducioso, sereno rifugio in quel ritiro, anche se si continua a vivere in mezzo a un mondo di gente, per la quale già da tempo abbiamo smesso di vivere.
Fino a che tutto l'universo che era in noi, tutto quel che siamo stati, nel momento finale,   si contrae in un buco nero, che inghiotte ogni cosa, o gni tempo, ogni energia, ogni luce. 

Prima di sparire per sempre. Muti.