sabato 25 maggio 2013

La grande bellezza. O quasi.



Si leggono solo cose o apologetiche o demolitorie su questo film. Ingiuste tutte e due. Bisogna ripristinare la giusta misura. Che è quella di un "quasi".

Per cominciare va detto che è un film da vedere. Anzi, che è un film che non si può perdere. Di questi tempi, avrà i limiti che diremo, ma è e resta un regalo. E sono pochi oltre a Sorrentino a poter fare regali così.
E va visto fosse solo perché, nonostante duri quasi  tre ore e non abbia una vera trama è  un film che non annoia mai: lo scorrere delle immagini funziona, tiene legato a sé lo spettatore e le interpretazioni sono quasi sempre convincenti. Quella di Servillo è come sempre da applauso a scena aperta e le donne del film, chi più chi meno e  Ferilli in testa reggono tutte il ruolo. Il meno convincente è di sicuro Verdone.

Jep Gambardella (Tony Servilo)
Il film nasce e vive su due grandi suggestioni. La prima è quella della Roma felliniana.Tutto il film è  infarcito di citazioni felliniane. A volte (quasi sempre) anche con riletture originali ed eleganti: dalla monaca sulla scala al modo di correre dei chierici, alla adunata clericale (non è la sfilata di moda ecclesiastica  di “Roma”, ma il pensiero lì va), alle suore col faccino angelico, ad una Serena Grandi che sembra la Saraghina, al rapporto protagonista-regista narratore con Servillo a far da Mastroianni e Verdone a far da Morando.  Chi ha il culto del cinema di Fellini magari non sempre apprezzerà, magari  avrà la conferma che Fellini & Flaiano sono un’altra cosa (i limiti di sceneggiatura, se si fanno  questi raffronti emergono in modo impietoso), ma ha comunque di che esercitarsi e di che divertirsi.

La seconda suggestione che è poi  il vero asse concettuale attorno a cui tutto il film ruota è quella proustiana. E’ il  tema della ricerca della bellezza e della creazione artistica come tentativo di dare un senso alla vita. Come Proust, alla fine, il protagonista dopo una vita dissipata nella mondanità e nella ricerca della bellezza, appunto, decide di tornare alle sue radici (con tanto di consiglio che vorrebbe essere ironico e che però suona solo ridicolo di una improbabilissima Madre Teresa di Calcutta ribattezzata suor Maria) e di iniziare a scrivere un libro. E quindi è un tema che rimanda al suo negativo: alla mancanza di senso, al degrado, alla disperazione, all’orribile, alla morte. Il personaggio del giovane suicida dà rimandi precisi in questo senso, nella sua ultima apparizione.

Va visto perché è un film di grandi ambizioni e perchè non è giusto dire che le manchi del tutto.  E’ evidente che  pur con i pregi che s’è detto,  lascia a tratti  la sensazione di girare a vuoto o di ripetersi o di banalizzarsi. La stessa resa estetica di Roma non è sempre convincente e mai “da meraviglia”. Il carattere magico di certi scorci romani solo raramente riesce a venir fuori.  E comunque,  l’indimenticabile, l’eccelso, il sublime si vede che viene cercato, si vede anche che era alla portata, ma si vede anche chiaramente che non viene mai raggiunto. La scena da antologia non c’è. Al capolavoro non si grida mai.

A voler  scavare,  più generale,  sembra che al regista non sia completamente riuscito a trovare quella chiave narrativa ironica che cercava, quella leggerezza che solo a tratti emerge o si intuisce. E probabilmente questo è dovuto ad una contraddizione irrisolta con una terza suggestione, quella rivelata dalla citazione di apertura. La citazione è questa:

“Viaggiare, è  proprio utile, fa lavorare l'immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco la sua forza. 
Va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato. E’ un romanzo, nient'altro che una storia fittizia. Lo dice Littrè‚, lui non si sbaglia mai.  
E poi in ogni caso tutti possono fare altrettanto. Basta chiudere gli occhi. 
E’ dall'altra parte della vita.”

Paolo Sorrentino
Ecco, se c’è una cosa che Celine non avrebbe potuto fare è ambientare  e neppure concepire il suo disperato  "Viaggio al termine della notte" a Roma, anziché nelle periferie parigine. 
A Roma neppure la disperazione, il vuoto, l’orrore  e quindi tanto meno il trash, il cafonal, il volgare possono essere presi così sul serio. Neppure la missione salvifica della ricerca della bellezza. 
Come si fa ad immaginare Proust con l'asma a Roma, chiuso in una stanza foderata di sughero con vista assolata  su Trinità dei Monti o Piazza Navona?

Nulla a Roma è così irredimibile e cupo. Il perentorio "O Roma o morte", Maccari propose di sostituirlo con "o Roma o Orte": un quasi, insomma. Un modo p'aggiustasse. 

Forse quel che frena il film, lo devia sui percorsi in ombra, gli toglie luce e brillantezza, gli impedisce di volare è che tutto e tutti si prendono troppo sul serio. 
Regista in testa.

C.C. Baxter