sabato 23 febbraio 2013

SIMENON E IL BORGOMASTRO DI FURNES


Ai romanzi di Simenon (l'ho già detto qui) torno periodicamente. Quando ho bisogno del puro raccontare, del nudo piacere del leggere storie.
Ne esco rinfrancato. Ma ne esco anche con la percezione che forse  qualcosa manca.  O forse che c’è un limite di comprensione non varcato. E questo  mi lascia una vaga insoddisfazione, una forma di risentita diffidenza. È un po' come capita quando si guardano certi giochi da illusionista: ci meravigliano, ci lasciano qualche vaga intuizione, il sospetto di un imbroglio o semplicemente la certezza che  un trucco c'è, ma che non siamo riusciti a scoprirlo.

Molti dicono che Il Borgomastro di Furnes è uno dei suoi libri migliori. Lo è. 
Un racconto asciutto, tagliente come un coltello di ceramica. 
Un protagonista ed una vicenda che affettano ghiaccio. E personaggi disegnati con pochi tratti, come in certi schizzi a matita o a carboncino, che irrompono sulla pagina dalla mano di un grande artista. 

C'è ad un certo punto una frasetta che mi ha colpito e fermato.

"Con i gomiti sulle ginocchia, lui la guardava, e non era commozione quella che gli si leggeva in viso, non era dolore, bensì una sorta di ebetudine, lo sforzo ostinato di chi vorrebbe capire".

Ecco, forse il mistero che cercavo (come al solito) è semplice ed è tutto lì: Simenon guarda. E basta. 
Guarda la scena,  ce la descrive e ci racconta quel che succede.  Cerca di capire e farci capire cosa accade, semplicemente guardando e raccontando. Ci trasmette quella sorta di ebetudine di cui parla il suo borgomastro,  davanti al manifestarsi della nuda realtà. 
E' un grandissimo raccontatore di storie. Filma con le parole, fotografa sulle righe, riflette sulla pagina come su uno specchio.

A qualcuno sembrerà banale. Per me non lo è.

D’altronde,  che non lo sia lo dimostra il fatto che c’è qualcun altro dice che Simenon ha introdotto nel giallo lo scavo psicologico. Ecco, credo che se quella è una banalità, questa sia una forzatura fuorviante, tutta novecentista. Leggere i romanzi di Simenon con la chiave psicologista che apre appunto tanta letteratura dall'inizio del novecento in poi, secondo me è un errore. E' tutta  lì la matrice dell'equivoco che alla fine disorienta, lascia il senso di qualcosa che manca, che non torna, che non funziona.
La sua abilità di scavo non si esercita sulla ricerca del senso, sulla presa di coscienza, sui rovelli che hanno portato il suo personaggio prima a muoversi nella sua "normalità" e poi ad virare su un comportamento "anomalo", che produce una morte o un cambio di vita o una resa.
In Simenon c'è invece e soltanto lo scavo delle storie, degli ambienti, dei fatti, del muoversi delle figure sulla scena, del manifestarsi del malessere o delle passioni.

Il romanzo è l'arte del dettaglio  e insieme l'arte dell'implicito, del non detto che mette in movimento la testa del lettore.  Simenon di questa arte è grande maestro.  È dai dettagli che nascono le sue  "atmosfere": è dal nudo e scarno e essenziale racconto dei fatti, che  Simenon illumina e ti mette davanti il personaggio. Te lo espone per com'è, per come si muove, per cosa sceglie di fare. 
Il resto  è non detto: è implicito, appunto. É affar tuo interpretare e trovare nessi e cause "nel profondo". 
Nessun illusionista che si rispetti spiega il suo trucco.
La catena delle cause e degli effetti per le quali il Borgomastro è arrivato ad essere quel che è non c'è. Non c'è quasi mai nei suoi romanzi, se non per accenni, vaghi spunti, lampi di  disvelamenti, vaghe stelle comete (come la madre per esempio, anche quella disegnata con pochi tratti netti, essenziali). La mappa mentale che sta dietro le quinte te la devi costruire tu, se proprio ci tieni. Col sospetto che a lui la cosa non interessi affatto. Anzi, lo dice lui stesso che è così: « Io non penso mai », «Io non tiro conclusioni », « Io non ho mai idee », « Io scrivo e basta».

Simenon, lo esprime bene un altro scrittore, Banville, è "un osservatore attento e analitico, che nelle sue opere non si dilunga in descrizioni favolistiche di luoghi e persone, ma anzi ad esse dedica spesso poche e asciutte, anche se esaustive, righe. Tutto è crudo e brutalmente trasparente, tutto è nuda realtà."
Questo comporta un'altra conseguenza importante: Simenon non partecipa, non si fa coinvolgere, non giudica. Non c'è un osservatore partecipe,  che sia empatico o che sia giudicante o che sia comunque emozionalmente coinvolto. Non c'è. C'è un narratore osservante, un testimone asettico con guanti e mascherina. Ha ragione ancora Banville: "Simenon riesce davvero a sembrare un osservatore indifferente, uno che si sta tagliando le unghie, distaccato dal mondo da lui creato". Sembra scivolare mostruosamente leggero e indenne, su un mondo che vede da vicino, in ogni particolare, ma dal quale sembra essere impermeabilizzato. 
È la stessa percezione che si ha d'altronde anche leggendo la sua meticolosissima ed impudica autobiografia. Anche lì esce fuori un personaggio che come il Borgomastro ha del mostruoso, del raggelante. Chi trovasse Joris Terlinck poco credibile non ha che da leggere quel che racconta di sè stesso, con lo stesso sostanziale distacco, il suo creatore.
 
Poi c'é da dire che la resa letteraria  di questa visuale  passa ovviamente anche attraverso il linguaggio: un "vocabolario scarno e la rinuncia di qualsiasi finezza letteraria, da atmosfere molto dense". Tutto sembra troppo semplice, naturale, come si fosse scritto da solo. Ecco perchè viene da chiedersi "ma il trucco dov'è?".

È tutto questo che contribuisce a produrre quell'impressione complessiva di un artifizio, del frutto di un grande "mestiere".
Guardare da lettore il  mondo che lui crea può dare  la sensazione straniante di stare nel laboratorio di un artigiano e guardarlo da dietro le spalle mentre lavora. Cos'è un grande artigiano se non una miscela miracolosa fatta di inconsapevole talento, di una strabiliante manualità e dalla sapienza spremuta e scremata da una applicazione quotidiana? Ecco, lui sembra essere così, “solo” questo.

Oppure, per usare un'altra immagine, Simenon sembra  stare alla sua scrivania, sul suo foglio bianco,  come si sta sul bordo di una  strada, seduto su un paracarro, i gomiti sulle ginocchia e la pipa tra le mani, a guardare quel che succede a chi passa. 

Riesce a non sporcarsi neanche le scarpe di polvere, mentre i suoi personaggi sbalzano sulle buche o sbandano o rompono la vecchia automobile, come il Borgomastro, senza sapere dove sta andando. E perchè.