sabato 27 ottobre 2012

Fotografie dell'anguilla


Tra i nostri scarabookkianti da oggi c’è anche Loris,  fotografo.
Lavorando insieme su didascalie, come in un gioco, è venuta fuori l'idea di tentare di tradurre in parole le emozioni e le storie che si nascondono dietro gli scatti di una macchina fotografica. 
Ne è venuta fuori una sorta di racconto.


Il fotografo tratta le anime come fossero oggetti: il più delle volte non se ne accorge, ma ha la crudeltà del bambino che gioca con le lucertoline. Le inchioda in un gesto, uno sguardo, una postura. Cristallizzando un attimo, fa quello che ad un poeta o ad uno scrittore potrebbe riuscire solo a costo di una gran fatica autoptica sul ricordo o di una geniale illuminazione interiore. Invece quasi tutta la luce di cui ha bisogno il fotografo è fuori di lui.
Il suo lavoro è più facile, ma non è meno misterioso. Non sempre, magari solo molto tempo dopo e come nel nostro caso solo grazie allo sguardo di un amico, scopre di aver colto senza i rovelli di una interpretazione cosciente, l'essenza di una figura, di una situazione, di un carattere, di un modo di essere.
Riuscirci non implica necessariamente una particolare sensibilità. Può essere anche solo un fatto di esperienza, quindi di pura abilità tecnica acquisita sommando scatti. Forse viene anche da una indefinibile sapienza della quale, essendo innata, non si ha merito.

C'è un ulteriore vantaggio per il fotografo: lavora con i corpi. E i corpi più facilmente si lasciano sfuggire la verità, anche quando sono in posa. Nei gesti, in una piega incontrollata degli arti e della pelle, finisce per affiorare qualcosa di profondo. I musulmani dicono che rubare l’immagine di un uomo è rubargli l’anima. Hanno ragione.
Con certi soggetti poi, fotografarli è  l’unica maniera di stanarli e vederli come sono davvero. Parlo per esempio di certi tipi silenziosi e reticenti, che coltivano più o meno consapevolmente un certo mistero. Di quelli pervasi da una algida idiozia o da una ben celata mediocrità o da una ostinata diffidenza, per cui lasciano immaginare un enigma che non c'è. Parlo anche di  quelli che restano sempre  chiusi dentro un guscio di paura o di colpa o di auto disistima, anche quando ridono disinibiti e fanno spettacolini e si vantano di tutto.
In una foto, se è buona e fortunata, tutto questo viene fuori.
Oggi, per esempio.


Oggi ho riguardato le sue fotografie, le fotografie di una persona che ho molto amato.
Sono tornato a scovarle per malinconia. Ogni tanto mi capitano, a distanza di anni ormai,  queste ricadute nella malinconia. Ricorrono come accessi di febbre malarica, con un loro regolarità. Non c’è equivalente di chinino che tenga. Bisogna solo aspettare che passino e darsi poi il tempo per recuperare le forze. Quelle che servono per ritrovare e proteggere l’oblio: l’unica prevenzione che funziona. Fino al prossimo attacco.
Stavolta però, non è stato come le altre volte, solo un modo per star male. Stavolta,  attraverso le foto credo di aver compreso quello che, ragionando all'infinito attorno alle cause di un incantamento rivelatosi un abbaglio, non ero riuscito ad afferrare.
E questo mi ha fatto pensare anche alla fortuna che ho, a fare questo mestiere.

Quando ripenso a quel periodo mi viene sempre in mente il verso di una canzone di Guccini

"se penso a un giorno o a un momento ritrovo soltanto malinconia
è tutto un incubo oscuro, un periodo di buio gettato via..." 
Riguardando queste foto c’è invece una parola nuova che mi è affiorata come una folgorazione dai  ricordi.  Descrive non tanto lei quanto l'effetto  che su di me aveva il suo modo di usare il corpo. Un effetto del quale all’epoca non avevo coscienza.

Quell’effetto, quella parola è indugio.
Si, era una persona davanti alla quale il mio corpo, la mia mente erano portate soprattutto ad indugiare. Esercitava su di me una sorta di magnetismo ipnotico che mi induceva ad una passiva contemplazione; una interdetta attrazione; una inconcludente ricerca di risposte ad interrogativi che non riuscivo a formulare. Poche volte e rompendo con fatica quello stallo sono riuscito a far scattare la mia Nikon. Di solito, ero come paralizzato.

Cosa mi spingeva a quella innaturale immobilità, a quella sorta di malia estetica? Forse in parte una partenogenetica passione; forse era anche l'omaggio imposto da una grazia femminile vera, da un grado inusuale di struggente e sofisticata quanto inafferrabile bellezza. Era di sicuro legato a quel silenzio che abitava così spesso tra di noi; un silenzio elettrizzato dai suoi sguardi impenetrabili, da occhi grigi e freddi e profondi come un mare del nord. Buttarcisi dentro era una tentazione che somigliava all’attrazione folle esercitata da un salto nel vuoto.

Poi accadeva qualcosa, una sorta di scatto, difficile da cogliere con l’obiettivo. Solo in due casi ci sono riuscito, con sequenze che a metterle in fila, adesso, solo con l’orgoglio professionale riesco a temperare un pò il rimpianto.
In una è un allargare le gambe dentro una gonna ampia e fiorita. In un’altra un incrociarle, avvolte in stretti pantacollant neri. In tutti e due le situazioni, seguiva un tuffarsi ed uno sparire improvviso delle mani, le dita giunte o intrecciate, tra quelle gambe, che infine si rinchiudevano come una tagliola sugli avambracci. Era un atteggiamento che sapeva di impazienza, di disagio ed esprimeva, distorcendola, una volontà infantile di nascondersi, di trovar rifugio, di fuggire.
In un’altra sequenza è  in piedi invece e la spinta interiore a fuggire, a sottrarsi, veniva fuori in  un saltino con cui faceva due passi avanti a me e poi si girava,  le spalle che si alzavano rigide ad incassare la testa. Anche lì, la foto fa pensare all’andare a ritrarsi di corsa in un qualche guscio; lo sguardo equamente diviso tra un fanciullesco spavento ed una rabbiosa insofferenza, i capelli irrigiditi in un disordine apparentemente casuale.

In un’altra  foto, al tavolo di un ristorante, in una assolata e calda giornata di dicembre, lo scatto ha cristallizzato il fuoco fatuo di un vago sorriso. Fu forse l’ultimo sorriso che ho avuto da lei dettato dall’affetto e dall’orgoglio di avermi. Era accompagnato dal tocco leggerissimo di una mano, subito ritratta, forse con imbarazzo. Poi, di nuovo, un immobile e silenzioso scrutare laterale, altrove, in cerca di una via di uscita, di una possibilità di ritorno chissà dove, chissà a cosa.

Le più terribili di tutte però, rivelatrici di quel che poi sarebbe accaduto, sono due primissimi piani. Una, scattata in un orribile bar di plastica bianca, plexiglas e specchi, inondato della musica insopportabile di un televisore. Ed un’altra mentre le ero seduto sulle gambe distese, su di un letto, in una stanza d’albergo. In tutti e due i casi l’avevo sottoposta ad una involontaria costrizione, per così dire “d’amore”, a cui non aveva saputo sottrarsi: a star con me quando voleva invece, in un caso continuare a lavorare e nell’altro partecipare ad una specie di cena con i suoi capi. Lavoro, in tutti e due i casi, in realtà, quindi. Era  il suo anestetico, il lavoro, la sua tana. Non so più niente di lei, ma so  che il lavoro di sicuro è diventata la sua tomba.
Gli occhi nelle due foto fiammeggiano gelidi di  rabbiosa insofferenza, di voglia di liberarsi di me. Si vede, nitida,  nelle pupille chiare l’orma lasciata dal passare della fantasia disperata di scivolare via zigzagando, senza l’attrito di una spiegazione, da quel bar, da quel cuscino. E di tornare nell’unico luogo mentale e fisico, quello del “dovere”,  in cui si sentiva protetta, “a posto” e dimentica di sè.
Forse aveva già deciso e la decisione era solo rinviata. Forse era ancora combattuta tra sensi di colpa opposti, tra affetti e destini inconciliabili. Di certo, aveva già individuato  in me il vero corpo estraneo o semplicemente quello che era possibile espellere senza rimetterci troppo.
In tutti e due quelle circostanze, per il fatto di aver messo subito mano alla macchina, penso di aver colto il suo rancore represso che ancora la mia mente non aveva visto e tutta folle identificazione in cui era caduta tra dovere e libertà. Mascherai il mio gesto dietro un futile gioco che finì di certo per irritarla ancor di più.

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Si, capitava, anche in altri casi, che prendessi iniziative e rompessi l’indugio: non sempre riuscivo a reggere quella sorta di ipnosi. A volte era il desiderio a farmi agire, quasi con  rabbia, con  una colpevole e frettolosa velleità di cattura e di possesso. Come il cacciatore inesperto di farfalle col suo retino. E mi stupivo nel non incontrare resistenze. Ancor più mi meravigliavo nell’incontrare invece un segno di resa, una accondiscendenza passiva, senza partecipazione.
Non era una donna “facile”, ma lasciarsi usare non era un problema per lei: non un problema  di pudore e di morale, quanto meno. Quando si è negata, lo ha fatto sicuramente negata più per paura o magari solo per dispetto che per rispetto di sè e tanto meno per “sani principi”. Quando eravamo nella fase degli approcci e le dissi per la prima volta mi sarebbe molto spiaciuto se avese pensato che volevo solo portarla a letto, mi rispose che non dovevo preoccuparmi per questo, che per lei non era un problema. Ricordo ancora la fitta di dolore che provai.

Mi ha anche lasciato con placida noncuranza scattare foto molto esplicite. Quel che colpisce a riguardarle è che non trasmettono nessuna carica erotica. La lama della sua bocca ad un certo punto sembra tagliare il mio sguardo: gli impedisce quasi di scendere giù. E sopra, il pozzo dei suoi occhi sembra risucchiarlo in una profondità buia, senza calore. Il suo darsi, anche all’obiettivo della mia macchina, lasciava preludere più ad una revoca imminente di quel precario consenso, che ad una accoglienza finalmente vera, piena; mai ad una qualche attiva condivisione. Quella non c’è  stata neanche quando il desiderio la spingeva a lasciarsi andare alla passione, quasi suo malgrado, quasi con una accusa non espressa, con gemiti che sembravano lamenti. Allora, sentivo che era lei ad usare me, con lo stesso disinvolto disincanto.

Più spesso quelle fasi di rottura dell’indugio si chiudevano così come davvero voleva: con una fuga strisciante, sinuosa e zigzagante, come quello di un'anguilla. Ed infatti, così sparì dalla mia vita: senza parole di spiegazione, senza più neppure un gesto, con la semplice affermazione di un'assenza, di un definitivo, scivoloso sottrarsi.
E sono certo di non aver lasciato che povere scalfitture sotto lo spray vetrificante con cui quotidianamente cosparge il suo mondo interiore.
Sono io che del tutto arbitrariamente nei momenti di malarica malinconia continuo ad attribuirle un rimprovero ed insieme una richiesta infantile di perdono: per una inadeguatezza, per una impossibilità, per una riserva di fondo che non è solo verso di me. Tutte cose che per codardia ed innata reticenza non ha mai espresso con le parole, al di là del silenzio. Tutte cose che le foto adesso sembrano volermi confermare.

L’ultima foto che ho di lei è quella ancora di un allontanarsi. Definitivo. A passo veloce, poi per un attimo ferma, il viso girato verso di me, su un marciapiede e sullo sfondo di un cielo dello stesso colore, quello del piombo, di una città  fredda, opulenta e affogata nelle sue tristezze alcoliche. Nasconde  in un sorriso dolce, venato di compassione, forse vera o forse finta, una condanna triste, già emessa, irrevocabile.
Ma è una foto quella che non ho mai scattato. Per eccesso di indugio.
Loris C.