sabato 14 agosto 2010

La sigaretta di Yves Montand

di C.C.Baxter(*)
Se dovessi fare una graduatoria delle cose che più spesso ricordo e più volentieri, di una frequentazione  delle sale cinematografiche assidua e lunga una vita, ci metterei anche questo finale di "Vivre pour vivre".
Film di Claude Lelouche. Bello solo perché scritto con la macchina da presa da un maestro artigiano della scrittura cinematografica. Non un "capolavoro", ma un film godibilissimo e ben fatto di sicuro, con dentro tecniche e chicche di pregio assoluto.
Consiglio di vederlo in francese, il film; molto meglio se si ha la fortuna di non saperlo, il francese, se non come lo impari a scuola: poco e male cioè. Quel tanto da poter orecchiare una parola, una frase, come traballanti appoggi. Sono comunque sufficienti per seguire la storia senza problemi e lavorar in pace di fantasia.

Questa scena finale, dunque. E' un film nel film (con i sottotitoli in portoghese è anche meglio). Si può guardar come fosse una cosa a parte.
La trama è elementare. Montand sta tentando di riconquistare la moglie: una materna, decisa, esile e magnifica Annie Girardot. Che lui ha tradito e ferito, con una Candice Bergen, solare ed americanissima. E la moglie se n'è andata; anzi lo ha cacciato. Ora sta con un altro. Siamo in un locale di montagna, in una serata avvolta dalla neve. La situazione è un po' alla "E io tra di voi", di Aznavour.

Bene. In questo film nel film, c'è un altro film. Ed è Yves Montand che fuma la sigaretta. Ecco, se il fascino maschile ha un senso, anche per un maschio eterosessuale di gusto classico, questo è esattamente fascino maschile allo stato puro.
Intanto accende col fiammifero, con un movimento della mano che si intravede appena e che si intuisce andare verso l'esterno, quasi a buttare lontano il fuoco mentre esplode. Non soffia per spegnerlo, dopo aver acceso. Lo scuotimento finale e decisivo della mano condensa l'irritazione, l'impazienza, l'intolleranza di chi non è abituato a non ottenere subito quel che vuole. E men che meno a ritrovarsi invece ai margini della scena.
Poi c'è l'azione variata ed inframmezzata ed avventurosa della mano che regge la sigaretta: abbracciandola coll'indice e pinzandola col pollice (verso l'interno del palmo); appuntandosela sul medio mentre martella le labbra con le nocchie; facendosi accompagnare dalle tre dita mentre fa un saluto triste e ruffiano  ad una incantata ed irritante ammiratrice o forse a lei che balla lì sotto (ed ostenta divertita indifferenza) .
Montand convive con la sigaretta come uno che si vede che le vuole bene, che ha bisogno di lei più dell'aria che respira. Persino quando non la sta fumando, sembra sia lì, tra le sue dita che avvolgono la bocca.  Ma la tratta come chi usa quel che gli piace con la noncuranza e la scontata certezza di un asservimento a sè implicito e dovuto, ma anche dolce e complice.
A volte però, a volte appoggia la mano che regge la sigaretta all'incavo dell'altro gomito: e lì fa pensare ad un bambino che si raggomitola nel letto. Che ha paura. Che aspetta labbra che tardano ad arrivare (e che teme non arriveranno più).
Tira boccate brevi il più delle volte; accompagnando dentro, il fumo, con un movimento impercettibile delle labbra. Sono disposto a battermi per sostenere che in quella piega di una delle bocche maschili più magnetiche della storia del cinema c'è un che di disappunto, forse di sofferenza. Lì si sta consumando un dramma, sono certo.
Il soffiar fuori il fumo, alla fine, è solo un lasciar andare, un dettaglio irrilevante. Una dissolvenza.

Se ne va dal locale facendosi scortare da lei
(la sigaretta, s'intende).
La sequenza finale è da brivido.
E non è un brivido di freddo.

(*)Scaracorrispondente cinematografico